La buona scuola, tra anglicismi e sillabazioni

Ieri il governo ha pubblicato nuove informazioni sulla scuola. Il documento di sintesi in 12 punti ha ricevuto molta attenzione perché erano evidenti diversi errori nella divisione in sillabe di parole a fine riga.

Quasi sicuramente è stato usato software con impostazioni per una lingua diversa dall’italiano. Forse anche chi ha impaginato non era italiano perché è difficile pensare che un professionista non noti errori rilevabili anche dai bambini che hanno fatto la prima elementare. È più difficile invece riconoscere errori di sillabazione in lingue che hanno regole complesse, come l’inglese: dettagli e implicazioni per la localizzazione in Non si sillaba solo a scuola…

Nuove alfabetizzazioni: aumento degli anglicismi?

Le nuove alfabetizzazioni. Rafforzamento del piano formativo per le lingue straniere, a partire dai 6 anni. Competenze dig-itali: coding e pensiero computazionale nella primaria e piano “Digital Makers” nella sec-ondaria. Diffusione dello studio dei principi dell’Economia in tutte le secondarieA me però hanno colpita di più altri aspetti del documento, a partire dagli anglicismi superflui “Digital Makers” e coding (nel documento integrale spiegato tra parentesi da programmazione: perché non privilegiare la parola italiana?).

Non ho letto il documento integrale, ma sfogliandolo rapidamente ho notato molti altri anglicismi, ad esempio comfort zone, Bring Your Own Device, policy, early leavers, hackathon, good law, nudging, problem solving, decision making, matching, blended, mentor, gamification, co-design, service design, jams, barcamp, world cafès, Content and Language Integrated Learning, Social Impact Bonds, Design Challenge, School Bonus, School Guarantee, Data School, e grafici con didascalie solo in inglese: quanti sono forestierismi insostituibili o utili e quanti invece sono solo superflui?

Come ho già detto altre volte, mi piacerebbe suggerire a chi si occupa di comunicazione istituzionale di ricorrere agli anglicismi solamente se sono registrati nei dizionari da qualche anno, indice che sono sufficientemente diffusi, e perlomeno di spiegarli chiaramente se sono davvero irrinunciabili: è una questione di rispetto per l’interlocutore

Pensiero computazionale: un concetto poco noto

Nei 12 punti di sintesi ho notato anche la locuzione pensiero computazionale, calco di computational thinking, un concetto diffuso negli Stati Uniti ma ancora poco conosciuto in Italia. Provate a fare una ricerca e confrontare le occorrenze: più di 250000 in inglese (e non manca la voce di Wikipedia), contro le circa 500 in italiano nel periodo precedente agli annunci di governo. Nel documento integrale però non si trova alcun accenno né spiegazione esplicita del concetto e così sembra un termine usato solo ad effetto.

Aggiornamento – Il riferimento al pensiero computazionale c’è ma non è esplicito (“risolvere problemi complessi applicando la logica del paradigma informatico“). Il collegamento a quanto pare è ovvio per gli autori del documento ma temo non lo sia altrettanto per i lettori: è la “maledizione della conoscenza”! Nei commenti qui sotto, una discussione più approfondita del concetto e della possibile termine alternativo pensiero informatico, con vari interventi, anche di esperti.

Maiuscole “americane”

Concludo con un’ultima pignoleria, ma nella comunicazione sull’istruzione tutte le competenze linguistiche sono importanti. Nel documento di sintesi molte parole comuni hanno un’inutile iniziale maiuscola, ad es. lo studio dei principi dell’Economia. Forse chi ha fatto questa scelta è vittima di un noto disturbo americano, la maiuscolite?


Aggiornamenti

In Coding e programmazione altre osservazioni dal punto di vista del lavoro terminologico (nei commenti, altre perplessità su alcune scelte formali e stilistiche del documento integrale).

Molto interessante l’analisi di Annamaria Testa in La buona scuola, confezionata come un pasticcino.

Traduzione non professionale per la versione in inglese dei 12 punti: Problemi di inglese per #labuonascuola.

22 commenti su “La buona scuola, tra anglicismi e sillabazioni”

  1. Mauro:

    Che poi “to compute” in inglese significa “calcolare”… quindi in realtà il misterioso “pensiero computazionale” altro non dovrebbe essere che il “pensiero matematico”.
    Ma si sa… la parola “matematica” è tabu, la matematica (e la scienza in generale) in Italia fanno schifo, quindi bisogna usare giri di parole per introdurla.
    Saluti,
    Mauro.

  2. Licia:

    @Mauro, si può anche notare che in italiano è molto più diffusa, perlomeno in frequenza, la locuzione pensiero informatico, anche se non è sempre chiaro se venga usata come sinonimo di pensiero computazionale. Ho letto Computational Thinking, l’articolo di Jeannette M. Wing che ha contribuito a popolarizzare il concetto negli Stati Uniti, e mi pare che pensiero informatico designerebbe il concetto in modo più efficace: ci sono molti riferimenti a computer science (un’idea di base è imparare a pensare come un computer scientist, quindi uno studioso o specialista di informatica). È una lettura molto interessante, ad es. spiega che computational thinking complements and combines mathematical and engineering thinking. Computer science inherently draws on mathematical thinking, given that, like all sciences, its formal foundations rest on mathematics […]”.

    @Monmartre, grazie :). In effetti ieri hanno corretto gli errori molto rapidamente e oggi c’è stata la conferma che era un problema di impostazioni per la lingua sbagliata.

    (e c’è anche la conferma alla predilezione per l’inglese nella comunicazione: topic anziché argomento e l’hashtag #shallWeMoveOn, e in altre interazioni su #labuonascuola ulteriore itanglese come finally, staytuned!, quiet, we’ll get there, be ready ecc. )

  3. Paolo:

    Ho aperto il documento e ho imparato che verranno aperti dei dibattiti dentro le scuole e che non saranno dei convegni “ma co-design jams, barcamp o world cafès” e che incoraggeranno studenti, personale amministrativo delle scuole, e creativi “a sviluppare soluzioni di service design con cui migliorare i servizi della scuola, partendo dai dati e organizzando hackathon”. Complimenti a chi l’ha scritto!

  4. Marco B Rossi:

    A questo punto dovrebbero dare anche indicazioni sulla pronuncia, e’ ˈkʌmfət da Received Pronunciation oppure ˈkʌmfərt all’americana? We want to know!

  5. Riccardo:

    Sono sempre più convinto che l’uso esagerato (e a sproposito) delle parole inglesi (usate correttamente o meno) sia un sintomo di ignoranza, menefreghismo, e, soprattutto, cafoneria.

    Vedasi il tweet della signora Solda-Kutz, con quell’infastidito #shallWeMoveOn che la dice lunga sull’atteggiamento di supponenza di certa gente.

  6. Licia:

    @Paolo, mi domando per quanti, al di fuori degli addetti ai lavori, il significato di queste frasi sia davvero chiaro (e quanti invece pensino che sia tutta fuffa). Ho aggiunto gli esempi mancanti al post, grazie. E ti comunico che il tuo commento era finito tra lo spam, chissà per colpa di quali di queste parole!

    @Marco :D  E non solo di comfort, ma sarebbe un lungo elenco!

    @Riccardo, prova a dare un’occhiata anche a questo scambio su Twitter. 
    Ho invece apprezzato questa citazione di Tullio De Mauro fatta da una persona che ha letto il post: “"Chi è al servizio di un pubblico ha il dovere costituzionale di farsi capire”.

  7. Enrico Nardelli:

    Gentile Licia

    sul termine pensiero computazionale il problema terminologico sottostante è che gli americani usano computer science per gli aspetti scientifici dell’informatica ma usano information technology per quelli tecnologici. In italia il termine informatica denota invece entrambi gli ambiti, con notevoli problemi culturali, di educazione e di comunicazione.

    Nel tradurre computational thinking, che è giustamente il tipo di pensiero che mette in azione un computer scientist, se avessimo usato pensiero informatico non avremmo raggiunto la stessa precisione del termine americano. Per questo abbiamo optato per pensiero computazionale, per focalizzare la sfera semantica sugli aspetti scientifici, culturali, intellettivi, piuttosto che su quelli tecnologici e manuali.

    Nella predisposizione del sito http://programmailfuturo.it stiamo mettendo la massima attenzione all’uso di termini italiani. Quando sarà interamente accessibile (adesso è visibile una sola pagina), nel corso della prossima settimana, ti siamo grati se vorrai commentare il risultato dei nostri sforzi.

    Già da adesso vedo che sul tuo sito ammetti i termini “home” e “about”, quindi forse non riceveremo troppi “errori blu”! 🙂

    Ciao, Enrico

  8. Licia:

    Gentile Enrico, grazie per il commento, che ho molto apprezzato. Sono davvero curiosa di saperne di più e di vedere il materiale che sarà pubblicato nel nuovo sito.

    Aggiungo intanto qualche osservazione e riferimento per chiarire a chi capitasse qui e leggesse i miei commenti perché, come terminologa, la scelta del termine pensiero computazionale non mi convince del tutto, perlomeno non nell’ottica del destinatario dell’iniziativa Programma il futuro. Mi pare infatti che sia rivolta a chiunque sia legato al mondo della scuola e quindi non esclusivamente a un pubblico specialistico di addetti ai lavori. Mi pare anche che pensiero computazionale non sia ancora un termine di uso consolidato in italiano: scarsi riferimenti online, nessuna occorrenza in portali come Treccani.it e Sapere.it. o altre fonti di consultazione di uso comune.

    Nella formazione secondaria dei termini (da una lingua 1 a una lingua 2) si analizzano le caratteristiche essenziali e distintive del concetto all’interno del suo sistema concettuale. Si identifica il contesto d’uso (linguistico, situazionale, cognitivo e culturale) e si valuta la denominazione nella L1 considerando usi metaforici, risemantizzazioni, slittamenti di significato, potenziali ambiguità, anche grammaticali, eventuali usi arbitrari delle parole e ogni altro aspetto che potrebbe non avere corrispondenza nella L2 (anisomorfismo). Per la scelta del termine in L2 vengono inoltre fatte considerazioni sul destinatario (utente tipico), confrontandolo a quello della L1: se ne valuta il livello di esperienza, le conoscenze specifiche, l’eventuale propensione per termini inglesi e la visibilità del termine ecc. In questo modo si riescono ad evitare esattismi e “traducenti” letterali, come può succedere quando ci si focalizza sulle singole parole della L1.

    Fatta questa premessa, in un contesto di comunicazione generalista, temo che in italiano l’aggettivo computazionale venga interpretato con il significato generico di “relativo ai computer” (che d’altronde ha anche computational nel lessico comune inglese), quindi molto simile a computeristico: più “tecno” che “scientifico” e “logico”. Non credo che computazionale richiami i riferimenti culturali e intellettivi che invece sono presenti nella comunicazione specialistica, soprattutto per chi conosce la letteratura in inglese.

    Ho trovato molto interessante l’osservazione sulla differenza tra computer science e information technology nell’inglese americano, però penso che a determinarla siano science e technology più che computer e information. Grazie alla mia lunga esperienza nel campo della terminologia informatica destinata al grande pubblico, credo di poter affermare che in un ambito non specialistico i concetti identificati da computer science in inglese e informatica in italiano siano molto più simili di quanto possa sembrare da un’analisi prettamente lessicale, e potrebbe essere utile tenerne conto nelle scelte terminologiche per concetti non ancora noti e diffusi come quello rappresentato da computational thinking (cfr. l’esempio di forensic e forense). 

    Grazie ancora per le osservazioni, molto stimolanti. E seguirò sicuramente con interesse gli sviluppi del sito.

    Licia

    Per curiosità, un confronto tra inglese americano e italiano ricavato con Google Ngram Viewer che evidenzia alcuni aspetti diacronici e rileva una frequenza d’uso molto simile per computer science e informatica

    PS Non sono affatto contraria all’uso di terminologia inglese, se motivata. Ma non capisco perché per un’iniziativa che si chiama Programma il futuro, con sito http://programmailfuturo.it, si debba usare il termine coding anziché programmazione.
    Il mio punto di vista sull’uso dei prestiti in L’invasione degli anglicismi.

  9. Guido Proietti:

    Gentile Licia,

    l’uso del termine “programmazione” in italiano è ambiguo, perché rimanda al concetto di pianificazione (e non a caso “Programmailfuturo” gioca sul doppio senso). A mio parere, il termine “coding” non può quindi essere reso in italiano dal termine “programmazione”, eccetto il caso in cui il contesto non consenta ambiguità. Negli altri casi, “coding” andrebbe reso con “l’atto di programmare un calcolatore”, o qualcosa del genere. Purtroppo la forma ing in inglese molto spesso è intraducibile. Anche tradurre “thinking” con “pensiero” è insoddisfacente secondo me, perché non restituisce il dinamismo (l’atto del pensare) insito in thinking.
    Cari saluti, Guido (che spesso si arrovella su queste questioni)

  10. Licia:

    @Guido, grazie per il contributo. È vero che non è sempre possibile riprodurre tutte le connotazioni e sfumature di significato nel passaggio da una lingua all’altra, però non credo che esistano concetti davvero intraducibili. Penso anche che a volte si tenda ad attribuire all’inglese una precisione maggiore dell’italiano ma, come tutte le lingue, anche l’inglese ha molte ambiguità, ad es. il verbo code (e quindi coding) può voler dire assegnare un codice, tradurre in un codice, codificare e, nell’accezione che stiamo discutendo, scrivere codice (e “codice” ha un referente diverso in ciascun caso). Privilegiare il sostantivo coding a programmazione ha un altro svantaggio: manca un verbo per descrivere l’azione corrispondente, come si ha invece con programmazione > programmare (scrivere codice è molto più vago di programmare, che oltretutto implica una finalità, e non mi sembra proponibile gergo di uso molto ristretto come codare: io codo, tu codi, lui coda?). In un contesto educativo, cercherei di non dipendere troppo dall’inglese, soprattutto se esistono alternative italiane valide e in uso da tempo, anche per non instillare la convinzione che la nostra lingua non abbia mezzi espressivi adeguati. Qualche altra considerazione su inglese reale e percepito in Ancora itanglese.

  11. Riccardo Schiaffino:

    @Guido:

    “il termine “coding” non può quindi essere reso in italiano dal termine “programmazione”” […] “tradurre “thinking” con “pensiero” è insoddisfacente secondo me, perché non restituisce il dinamismo (l’atto del pensare) insito in thinking”

    Ecc.

    Ci risiamo con quelli che giustificano scrivere un italiano balengo con la presunta incapacità della nostra lingua di rispecchiare tutte le sfumature contenute nei termini stranieri.

    A voler seguire la stessa logica, allora, non bisognerebbe mai tradurre niente, e lasciare tutto come sta, visto che sono proprio poche le parole di una lingua che possano essere tradotte da parole perfettamente corrispondenti in tutti i contesti in un’altra lingua.

    Il risultato di voler usare “coding”, “thinking”, e via dicendo sono testi che magari fanno felice chi li scrive (che così si immagina d’aver scritto in modo a suo dire più preciso) ma questo a scapito di chi li legge, visto che il lettore medio non sa cosa sia il coding, né, tantomeno capisce in che modo “thinking” sarebbe più dinamico che “pensiero”.

    Usare termini stranieri in italiano, quando questi non siano assolutamente indispensabili e già ben attestati, è mancanza di rispetto per il lettore.

  12. Licia:

    A proposito di anglicismi superflui, ne ho notati parecchi nei tweet dei responsabili del progetto La buona scuola. Qualche esempio: Respect! Easy guys, work in progress, stay tuned. ShallWeMoveOn, reloaded, …or not, summer school, policy by objectives, at last, public speaking. Mi lascia parecchio perplessa questo uso disinvolto dell’itanglese da parte di chi ha responsabilità pubbliche. In questi giorni è un argomento al centro dell’attenzione grazie alla petizione Dillo in italiano, che ho segnalato anche al gruppo di lavoro di La buona scuola (spunto: un tweet pubblico con sleep-deprived). Questo è lo scambio che ho avuto con Francesco Luccisano, Capo della Segreteria Tecnica del Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca:

    #dilloinitaliano @damienlanfrey @FLuccisano @dskutz @MiurSocial @rosariamangano2 https://t.co/HdtKkkqYJN di @nuovoeutie è anche per voi
    — Licia Corbolante (@terminologia) February 21, 2015

    @terminologia @damienlanfrey @dskutz @MiurSocial @rosariamangano2 dissento. "l’usage est suzerain "
    — Francesco Luccisano (@FLuccisano) February 21, 2015

    2/2 …estendibile anche ai francesismi 🙂 @FLuccisano @damienlanfrey @dskutz @MiurSocial
    — Licia Corbolante (@terminologia) February 21, 2015

    @terminologia @damienlanfrey @dskutz @MiurSocial giudizi morali sulle parole: ho un po’ paura…
    — Francesco Luccisano (@FLuccisano) February 21, 2015

    @FLuccisano non si tratta di giudizi morali ma di uso consapevole lingua di chi ha un ruolo pubblico @damienlanfrey @dskutz @MiurSocial
    — Licia Corbolante (@terminologia) February 21, 2015

    .@FLuccisano ad es. in #labuonascuola quasi tutti qs anglicismi dati per scontati @damienlanfrey @dskutz @MiurSocial pic.twitter.com/wGAeayHx6q
    — Licia Corbolante (@terminologia) February 21, 2015

    @terminologia @damienlanfrey @dskutz @MiurSocial Thanks a lot
    — Francesco Luccisano (@FLuccisano) February 21, 2015

    Se questo è l’atteggiamento di chi ricopre ruoli pubblici e quindi può influenzare l’adozione di neologismi, sarà difficile avere un dibattito costruttivo sull’uso più accorto e consapevole della lingua italiana. Vedi anche: Problemi di inglese per #labuonascuola

  13. dasmi:

    Licia, credo purtroppo che in questo scambio con Luccisano, sia stata tu a dare per scontato che il tuo interlocutore arrivasse a comprendere qual è il problema.
    Purtroppo siamo portati ad aspettarci da chi ha un ruolo pubblico un livello culturale e di intelligenza che spesso non corrisponde alle nostre aspettative.
    P.es. hai detto a Luccisano “quasi tutti qs anglicismi dati per scontati”: qui forse dovevi spiegare cosa intendevi. Una cosa del tipo “Siete sicuri al MIUR che chi legge questi espressioni in inglese, sappia davvero cosa intendete?” (una cosa del genere).

    Il mio dubbio è che non lo sanno neanche loro e che usano frasi a effetto perché “fa figo” dire “Content and Language Integrated Learning”. Probabilmente questo si affermerà come il burocratichese degli anni 2000. Si userà l’inglese per sostituire espressioni del tipo “Progetti di apprendimento esperenziale e di formazione formale e informale” espressi in un corretto italiano, ma altrettanto “oscuri”.

  14. Elio:

    Senza inutilmente scomodare l’inglese, c’è una parola italiana che descrive molto bene il comportamento di tale Luccisano: “Spocchioso”

  15. Licia:

    @dasmi, grazie per il contributo. Negli scambi su Twitter c’è il limite dei 140 caratteri e avevo aggiunto link a post sull’argomento, ad esempio questo:

    Non credo però che Luccisano abbia dato una scorsa a questo o altri post e quindi sappia con più precisione cosa intendevo (né che le mie segnalazioni siano state raccolte dai suoi colleghi in copia nei tweet, che in passato hanno avuto atteggiamenti simili: esempi qui).

  16. olinpino:

    Peccato che la redattrice dica ripetutamente _localizzazione_ e derivati per _edizione locale_, che sarebbe una locuzione neologica accettabile; _localizzazione_, invece, ha già un significato molto diverso.
    Poi scrive: “a me hanno colpita…” Non è un complemento di termine. Errore da napoletani di bassa istruzione (“vi uccido a tutte due”, scrisse un neoveneto. Era l’unico napoletano del paese e fu subito arrestato).
    No, non ci siamo: cattivi maestri va male; cattivi critici è peggio.

  17. Licia:

    @olinpino, la localizzazione è un tema ricorrente di questo blog: ho spiegato di cosa si tratta in Localizzazione, globalizzazione e internazionalizzazione (il mio primo post!). In alternativa si può verificare l’accezione che intendo nel Vocabolario Zingarelli, basta fare doppio clic sulla parola. Per chi legge da dispositivi mobili:

    L’appunto su a me è interessante perché mi pare non tenga conto della multidimensionalità della lingua: a seconda delle finalità comunicative si usano varietà diverse che possono seguire regole diverse. A scuola invece spesso si imparano norme linguistiche inderogabili che indicano cosa è giusto o sbagliato, senza alternative.

    In questo caso a me è un esempio di dislocazione a sinistra, per essere più precisi di accusativo preposizionale, usato non solo nelle varietà meridionali ma anche in Italia settentrionale, dove sono nata e vivo io. Sono forme che fanno parte del parlato e della varietà di italiano digitale nota come CMC (comunicazione mediata dal computer); in questi contesti nessun linguista le descriverebbe come errori “da bassa istruzione” ma semplicemente come un normale uso della lingua italiana: qualche dettaglio in Si dice o non si dice? Dipende e commenti.

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