Ancora itanglese

Con itanglese (o italiese o itangliano) si intende l’uso smodato di parole inglesi in italiano, non sempre usate correttamente. È tipico di alcuni ambiti come ad esempio il marketing, la pubblicità, la moda, la finanza, l’informatica. In tema, vi suggerisco Itanglese e italiano, alcune considerazioni di Annamaria Testa sugli anglicismi superflui.

esempio di itangleseHo trovato molto puntuale l’osservazione che i termini inglesi “hanno un vantaggio perché soggettivamente sono percepiti come più precisi e più evocativi, e perché si portano dietro in automatico una connotazione moderna e cosmopolita, quindi positiva”. Alcuni commenti all’articolo e ad altri che l’hanno ispirato sono la conferma che c’è chi conferisce ad alcuni anglicismi accezioni particolari assenti in inglese, ad es. c’è chi pensa che in inglese clown abbia un significato più specifico di pagliaccio.

Penso che la percezione soggettiva sia dovuta anche a differenze di registro: alcune parole inglesi hanno un equivalente in parole italiane a cui associamo connotazioni stilistiche o particolari risonanze che ce le fanno percepire come non adeguate per il livello o le finalità della comunicazione. I forestierismi invece non ci appartengono e inizialmente li avvertiamo come parole neutre, quindi possiamo “ridefinirli” caricandoli solo del significato che ci serve: come discutevamo qui, un concorso fa pensare ad aspiranti impiegati statali o all’estrazione degli splendidi premi in palio, e così per artisti e creativi è stato importato il contest.

Io però continuo a catalogare contest (e step, feature, deadline, tool, trend, competitor, mission, food, wine lover…) come forestierismi superflui e, come ho ripetuto spesso, sono sempre più convinta che la mania per gli anglicismi sia inversamente proporzionale all’effettiva padronanza dell’inglese (e spesso anche dell’italiano).


Aggiornamento dicembre 2014 – Francesco Sabatini descrive i troppi anglicismi come “un misto di pigrizia, esibizionismo ed elitarismo”:

Vedi anche: Elenco di anglicismi istituzionali e (nuovo) Anglicismi: criteri di condotta (messi in pratica), 4 domande stilate da Sabatini per decidere se usare una parola inglese o preferire un suo equivalente italiano.


15 commenti su “Ancora itanglese”

  1. Nico:

    Sono d’accordo, però sui forestierismi superflui c’è una cosa da dire, secondo me.
    Quando un termine italiano che può avere varie accezioni o sfumature viene sostituito da un anglicismo superfluo, molto spesso questo viene usato solo per una accezione (quella per cui è stato “importato”), e quindi per quello viene percepito come più preciso.

    Un clown c’è solo al circo, mentre “pagliaccio” è anche dispregiativo (“persona che si comporta in modo buffo”), per cui difficilmente si sente “smettila di fare il clown”.

    La “mission” è solo quella di un’azienda, non è quella militare o religiosa.

    Quindi, forse è parzialmente “vero” che “clown” abbia (se usato nell’italiano) un significato più specifico di “pagliaccio”. Dove sbaglio?

  2. Licia:

    @Mauro 🙂

    @Nico, credo che siamo comunque d’accordo: si tratta soprattutto di percezioni. Nel caso degli anglicismi superflui (escludo quindi quelli utili), la parola inglese ha anche le accezioni che ha la parola corrispondente italiana che viene sostituita, ad esempio in inglese mission è anche quella militare o religiosa, e clown è usato sia per quello del circo che per descrivere una persona in modo scherzoso o spregiativo: se i significati coesistono in inglese, perché non possono coesistere anche in italiano? Ecco perché penso che giochi un ruolo importante il registro, che ci fa rigettare alcune parole che sono percepite come troppo informali o di uso familiare, quindi troppo associate al “parlar comune”, e per questo non adatte al contesto comunicativo: un esempio tipico è screensaver che viene preferito a salvaschermo. Per rimanere in ambito informatico, un altro esempio potrebbero essere le metafore riconducibili a esseri viventi (mouse, spider ecc.) che raramente vengono recepite in italiano: ne ho accennato in Software e antropomorfismo.

    Annamaria Testa fa altri esempi che evidenziano la questione “stilistica”: mi accorgo che, se mi limito a tradurre, i nomi si svuotano. Suonano poco attraenti, generici e burocratici. Giusto per esempio: provate a tradurre Open mind lab con Laboratorio mente aperta (Laboratorio delle menti aperte? Laboratorio per l’apertura mentale?). E moltiplicate l’effetto per una decina di volte. Una schifezza.

  3. Marco 1:

    Mi rendo conto di dire una cosa di una banalità disarmante, ma credo di aver ragione.
    Semplicemente, le parole inglesi sono collegate ad un mondo che qui percepiamo come moderno ed efficiente, nonché … trendy 😉

    Invece i termini corrispondenti italiani, beh, ci fanno pensare all’Italia, anzi all’Italietta. Paese del quale, a torto o a ragione, siamo ben di rado orgogliosi. Burocrazia, vecchiume, provincia arretrata, mentalità contadina che fatica a digerire il terzo millennio, nonostante le apparenze.

    Insomma, già è dura fare la spesa al discount, se poi ci toccasse farla presso un supermercato che pratica una politica commerciale basata sui prezzi bassi …
    Giusto per fare un esempio.

    Inoltre la globalizzazione impone termini inglesi in campo commerciale, nell’intrattenimento, in tutti i settori economici e tecnologici. Ad esempio, so che esiste “macchina fotografica”, ma ormai “fotocamera” mi è più familiare e di conseguenza utilizzo il secondo termine.

    L’itanglese sarà insomma un vezzo sbagliato, un modo un po’ incolto di esprimersi, suonerà pure persino volgare ad orecchi istruiti, ma lo considero inevitabile e forse persino preferibile ai tentativi dall’esito improbabile messi in atto dai cugini francesi. Logicielle … Ma dai!

  4. Nico:

    @Licia, è vero.
    Solo che il prendere in prestito “mission” invece di usare “missione” servirebbe a “selezionare” (solo nell’uso – italiano – in un certo registro) l’unico significato valido nel contesto comunicativo in questione.

    Ma molto più spesso, come in effetti dice Mauro, serve a mostrare una padronanza sia del contesto che dell’inglese: “noi esperti del settore, che siamo internazionali, diciamo così”.

    Non è un caso che nel mondo IT effettivamente la densità più alta di inglesismi di questo tipo – anche a sproposito – non venga dai tecnici, ma dall’area commerciale/marketing, per dare un tono (…a proposito…) allo storytelling 🙂

  5. Stefano:

    “c’è chi conferisce ad alcuni anglicismi accezioni particolari assenti in inglese”

    Sai che è vero anche in inglese USA? Ad esempio, vai a spiegare all’uomo della strada che no, “gelato” non è uno speciale, particolarmente pregiato tipo di “ice cream” ma la banale traduzione italiana del banale “ice cream”.

  6. Licia:

    @Marco 1, @Nico, @Stefano: grazie per le osservazioni, molto interessanti. Con la premessa che per me rimane molto importante la distinzione tra lessico comune (concetti generici) e lessico specialistico (concetti specifici), descritta in L’invasione degli anglicismi, direi che anche voi, da angolature diverse, confermate che nell’uso dei forestierismi nel lessico comune intervengono vari aspetti sociolinguistici (ad es. diastratici, come età e appartenenza a un gruppo sociale, e diacronici, che ci fanno percepire alcune parole italiane come obsolete) che prevalgono su aspetti prettamente lessicali, ed entrano in gioco percezioni, aspirazioni, sensazioni, desideri (significativo l’esempio di gelato in inglese americano, assimilabile anche a food in italiano, che ha connotazioni decisamente più esotiche e internazionali di cibo, o a ginger, che nei supermercati milanesi sostituisce il meno esotico zenzero).

    A questo proposito, qualche esempio ricavato sfogliando l’ultimo numero della rivista Casa Facile, pubblicazione non specialistica destinata a un pubblico generico, che presumo includa anche molte persone con conoscenze di inglese scarse. A parte design, web e ormai anche social, ditemi quanti di questi sono anglicismi insostituibili o anche solo utili, e in che modo migliorano la comunicazione se non a livello di percezioni e sensazioni:
    Copertina: Idee easy! Dal sommario, nomi di rubriche: Staff, Planning, Web&Social, On the road, Revival, News, Design, News, Blogger, Gardening (stranamente c’è Fai-da-te e non DYI). Da titoli e titoletti degli articoli: Le stufe nuova generazione hanno linee glam; Stanze vive con pochi pezzi glam; Food&Design Experience con gli showcooking di Sale&Pepe; Tendenza fusion; Il riciclo old style; Fashion corner; Vuoi copiare il mood? Prendi spunto dalle nostre idee-shopping; Cover story; Arredi small; Guardaroba open; Tocchi fifties; Fighting colors; Linee minimal; Cooking style; Work in progress; Progettualità dark [foto di parete nera con termosifone bianco]. Mi fermo qui, ma la lista potrebbe continuare (altri esempi dalla stessa rivista in un vecchio post, Una casa shabby al punto giusto).

    PS Stefano, che ne dici di branzino, che a quanto pare in molti ristoranti americani viene preferito a sea bass, nonostante la pronuncia più ostica?

  7. Riccardo Schiaffino:

    Per conto mio, e a prescindere da ogni altra considerazione, è una questione di mancanza buona educazione e di buona istruzione.

    Mancanza di buona educazione perché chi per primo usa un’espressione straniera in italiano, invece di fare lo sforzo per cercare il termine italiano adatto, è un maleducato, che manca di rispetto ai suoi ascoltatori o lettori: è responsabilità di chi comunicare farsi capire, e usare nuovi termini stranieri significa dire al proprio pubblico “arrangiatevi: io sono troppo figo e troppo importante (e senz’altro troppo pigro) per fare lo sforzo di farmi capire”.

    Mancanza di buona istruzione (diciamo pure crassa ignoranza) perché l’uso di termini stranieri è sintomo palese di povertà di vocabolario in italiano; e inoltre perché l’uso solitamente erroneo dei termini stranieri indica anche chiaramente che oltre che poco italiano questi soggetti sanno anche poco e male le lingue straniere.

  8. Riccardo Schiaffino:

    “Annamaria Testa fa altri esempi che evidenziano la questione “stilistica”: mi accorgo che, se mi limito a tradurre, i nomi si svuotano. Suonano poco attraenti, generici e burocratici. Giusto per esempio: provate a tradurre Open mind lab con Laboratorio mente aperta (Laboratorio delle menti aperte? Laboratorio per l’apertura mentale?). E moltiplicate l’effetto per una decina di volte. Una schifezza.”

    E in questo non mi trovo d’accordo con Annamaria Testa: 1) “Laboratorio per l’apertura mentale” mi sembra abbia almeno la virtù di essere comprensibile, a differenza di “Open Mind Lab” (almeno per chi non sa l’inglese).

    Per quanto riguarda poi il nomi che “si svuotano” quando tradotti, non è che si svuotano, ma piuttosto che la loro pochezza intrinseca viene meglio rivelata quando vengono tradotti.

  9. Licia:

    @Riccardo, sono completamente d’accordo con te: mancanza di rispetto per l’interlocutore. Ed è l’opinione anche della linguista Maria Luisa Altieri Biagi, che in un articolo che avevo citato qui afferma che i forestierismi arricchiscono la lingua e quindi non vanno temuti, ma andrebbero evitati quando non sono necessari e “quando potrebbero creare difficoltà a chi ascolta o legge. Si tratta di rispetto per l’interlocutore, non di pregiudizio araldico o di autarchia linguistica”. Vengono subito in mente i vari welfare, service tax, spending review, fiscal compact (quanti sanno che compact è un accordo e che fiscale non vuol dire “relativo alle tasse” ma “relativo all’attività finanziaria dello stato”?), Jobs Act e via di seguito.

    Invece sul diverso effetto dei nomi in inglese e in italiano, c’è uno scambio interessante tra Annamaria Testa e Linda Liguori, esperta di naming, in un commento a Parole italiane e inglesi: una conclusione (provvisoria) in 12 punti.

  10. Andrea:

    Sento sempre più spesso il termine “mandatorio”. Spero non diventi mai un obbligo usarlo…. 🙂
    Buona Pasqua

  11. Licia:

    @Andrea, già: mandatory → *mandatorio (anziché obbligatorio o inderogabile) è un esempio di falsi amici sempre più diffuso, soprattutto nell’itanglese aziendale. Frase tipica La conoscenza della lingua inglese è un requisito mandatorio. Argh!

    (caso diverso invece l’uso nel linguaggio giuridico, dove l’aggettivo mandatorio significa “relativo a un preciso e cogente mandato”)

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