Lavorare da casa non è smart working!

Esempi di titoli: 1 Coronavirus: smart working obbligatorio nelle PA; 2 Coronavirus, lavoro: pronti 2 milioni di euro per lo smart working; 3 Covid-19, sono incompatibili smart working e smart schooling; 4 Lo smart learning oltre il coronavirus

Smart working è un’espressione ricorrente nelle notizie sulle misure per contrastare la diffusione della COVID-19. È usata genericamente per identificare l’opzione di lavorare da casa ricorrendo a strumenti informatici.

Si tratta però di uno pseudoanglicismo perché in inglese questa modalità di lavoro non si chiama smart working bensì working from home, da cui l’acronimo WFH, oppure remote working o anche telecommuting, come si può verificare nelle cronache dei media britannici e americani di questi giorni.

Seattle traffic disappears as Amazon, Microsoft, others enforce remote work policies

Smart working in inglese

In inglese smart working ha un altro significato: indica una modalità di lavoro flessibile con processi migliorati e ricorso a tecnologie e strumenti che rendono il lavoro più funzionale perché agiscono in modo “intelligente” (smart). Ne ho discusso nel 2016 in Agilità sul lavoro!, dove ho illustrato le differenze tra flexible working, smart working e agile working.

aspetti rilevanti di flexible working, smart working e agile working

Smart working in italiano

Aziende, politica e media italiani usano impropriamente l’anglicismo smart working come sinonimo di quello che la legislazione italiana identifica come lavoro agile nella legge 22 maggio 2017 n. 81, “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”:

Le disposizioni del presente capo, allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, promuovono il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Disapprovo ma non sono sopresa che persino il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali preferisca l’anglicismo smart working a lavoro agile, che invece è l’unico termine usato dal legislatore (anche nel recentissimo D.P.C.M. 1 marzo 2020):

Nell’ambito delle misure adottate dal Governo per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 (coronavirus), il Presidente del Consiglio dei ministri ha emanato il 1° marzo 2020 un nuovo Decreto che interviene anche sulle modalità di accesso allo smart working.

Anche nel caso di smart working, come già visto per molti altri anglicismi istituzionali, si riscontra discrepanza tra i testi delle leggi, che ricorrono quasi esclusivamente a terminologia italiana, e la comunicazione pubblica che così crea confusione e manca di rispetto ai cittadini.

Il sito del Ministero del Lavoro addirittura fa un’affermazione erronea: 

La definizione di smart working, contenuta nella Legge n. 81/2017, pone l'accento sulla flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti che sottoscrivono l'accordo individuale e sull'utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto (come ad esempio: pc portatili, tablet e smartphone).

Al contrario di quanto affermato, nel testo della Legge n. 81/2017 non si trova nessuna occorrenza dell’anglicismo! Si ha invece la conferma che lavoro agile non corrisponde né al concetto inglese di agile working (falsi amici!) né a quello di smart working ma è più simile a remote working, che a sua volta è un tipo di flexible working.

Se si vuole prendere il mondo anglofono come riferimento, per descrivere quanto stanno facendo molti lavoratori in questi giorni sarebbe preferibile la locuzione lavoro da remoto. In alternativa, si potrebbe considerare lavoro a distanza e invece usare con molta cautela telelavoro perché per il legislatore italiano è un concetto diverso (cfr. nota finale).

Smart schooling e smart learning

L’emergenza COVID-19 ha inoltre costretto alla chiusura prolungata delle scuole e alla ricerca di metodi di insegnamento alternativi. Sul modello smart working i media ricorrono a smart schooling e smart learning, dimostrando anche in questo caso scarsa dimestichezza con l’inglese e incapacità di verificare la terminologia italiana.

Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca usa infatti la locuzione didattica a distanza (DAD) per descrivere le modalità di insegnamento da remoto attraverso strumenti informatici.

Didattica a distanza. Come metterla in atto? In questa sezione sono disponibili strumenti, materiali, webinar per poterla attivare

Un’espressione alternativa più informale e più generica è scuola digitale.

In inglese invece schooling indica il tipo di istruzione fornita o ricevuta (ad es. private schooling, primary schooling, home schoolingistruzione parentale) mentre learning è l’apprendimento (cfr. distance learning tools).

Smart online!

Mi pare che l’uso di smart working e smart schooling appena descritto dimostri inoltre che in italiano viene frainteso il significato dell’aggettivo inglese smart.

Riferito a software o sistemi, smart indica la capacità di operare indipendentemente o automaticamente, in maniera “intelligente” (ad es. Smart Folder, SmartArt); riferito a dispositivi indica che hanno anche funzioni avanzate, tipiche dei computer (ad es. smartphone, smartwatch, smart glasses).  

In inglese smart non è sinonimo di [che avviene] online o di telematico* o di che ricorre alla tecnologia, come invece mi sembra intenda chi in italiano usa smart working o smart schooling. Per me è un’ulteriore prova che l’abuso di anglicismi è inversamente proporzionale alla conoscenza dell’inglese, o comunque che agli anglicismi vengono attribuite accezioni particolari assenti in inglese. 


* Mi pare che molti siano restii a usare l’aggettivo telematico perché viene percepito come obsoleto o burocratico, poco adatto al lessico del XXI secolo. È invece del tutto appropriato per descrivere l’uso di soluzioni informatiche a distanza.

Il prefisso tele- (“da lontano”, “a distanza”) si ritrova anche in telelavoro, una forma di lavoro da remoto introdotta nella legislazione italiana nel 2004 e che si differenziava dall’attuale lavoro agile perché la postazione di lavoro era fissa e predeterminata nel contratto (con il lavoro agile invece si può lavorare dove si vuole) e anche gli orari di lavoro erano fissi e determinati dal contratto (con il lavoro agile invece non ci sono vincoli).

Aggiornamenti: smartabile e in smart

La nuova accezione unicamente italiana di smart si è diffusa molto rapidamente e ha dato origine a vari pseudoanglicismi, a partire da smart worker. In ambito universitario è apparsa la locuzione smart studying che vari atenei presentano come modalità di studio in cui le lezioni possono essere seguite ovunque ci si trovi, a casa o altrove. Altre combinazioni che non hanno alcun senso in inglese sono Smart laureing, una laurea in inglese farlocco e smart dressing (cfr. commenti qui sotto).

La nuova accezione si sta dimostrando produttiva: in ambito ministeriale ha dato origine alla neoformazione ibrida smartabile (di attività lavorativa, che può essere svolta da remoto) ed è sempre più diffusa la locuzione in smart (ad es. lavorare in smart), abbreviazione impropria di in smart working.

Un altro pseudoanglicismo che ha avuto qualche visibilità è south working, che nelle intenzioni di chi l’ha coniato denota lavoro da remoto per un’azienda del nord Italia svolto in modalità smartworking da persone che fisicamente sono al sud e in questo modo evitano di trasferirsi lontano da casa.

Si nota anche l’uso sempre più frequente della forma univerbata smartworking

28 commenti su “Lavorare da casa non è smart working!”

  1. roberto giuffrida:

    Grazie, spiegazione molto esauriente.
    Comunque qui il problema generale è che gli italiani hanno sviluppato una vera e propria dipendenza dall’inglese che sembra quasi nascondere una sorta di complesso d’inferiorità. Se lo dici in inglese tutto sembra essere più moderno, importante, evocativo, al passo coi tempi. L’espressione analoga italiana ci sembra sapere di vecchio, ammuffito, inadeguato cosicchè sempre più spesso la sostituiamo con questi anglicismi che ci sembrano più efficaci e sintetici nel descrivere i concetti. In realtà è soltanto una questione di abitudine e predisposizione mentale. Ad esempio nei siti web quasi soltanto noi abbiamo il vezzo di adottare la parola Home. I francesi usano Accueil, gli spagnoli Pagina principal i portoghesi Inicio gli svedesi Hem e così via. Non ci accorgiamo che in questo modo a poco a poco stiamo rottamando quella che è la trave portante della nostra civiltà e quindi la nostra stessa identità. Una cosa assurda visto che stiamo trascurando un patrimonio intellettuale enorme a favore di che cosa? Della cultura del rock and roll e della pop art?
    L’esempio che viene dall’alto poi è dei peggiori, si usano anglicismi per denominare tasse (il tormentone della flat tax) e addirittura leggi dello stato (Job Act).
    La televisione a sua volta non aiuta affatto, anzi. Basta guardare come si chiamano i canali della tv di stato: rai premium, rai news, rai movie, rai gulp, rai yoyo, rai play. Se non fosse per l’ultimo sopravvissuto rai storia (a quando history?) si direbbe non la televisione italiana ma un ramo della BBC o della CNN.
    Di questo passo che lingua si parlerà in Italia tra vent’anni? E ci sarà ancora un popolo e una nazione che potranno definirsi tali?

  2. Flavia:

    Grazie Licia, confermo che il termine che usiamo in àmbito scolastico è proprio “didattica a distanza” e ti segnalo un altro termine che sento da alcuni giorni: https://it.wikipedia.org/wiki/C-PAP , senza ulteriori spiegazioni di cosa sia un “ci-pap”, tant’è che io inizialmente capivo “chip up”.

  3. Licia:

    @Roberto, grazie per il commento. La situazione però per fortuna non è catastrofica come potrebbe sembrare, la nostra lingua non corre alcun pericolo. Alcune osservazioni in Davvero fra 80 anni non si parlerà più italiano?, cfr. anche le considerazioni in Elenco di anglicismi istituzionali.

    @Flavia, grazie per il riferimento. Nel caso di C-PAP, è un termine specialistico di tutt’altro ambito. Concordo che andrebbe spiegato, altrimenti si tratta di maledizione della conoscenza.

  4. granmadue:

    Altro esempio il Ministero della Giustizia, che nella sua “Direttiva recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica attraverso l’adozione di modalità di lavoro agile” utilizza nel titolo, appunto, la locuzione lavoro agile, salvo poi infarcire il testo di numerosi smart working intesi come sinonimi.

  5. alead:

    Ciao Licia,
    Bellissimo post! Come sempre hai fatto una disamina sull’argomento molto precisa ed esaustiva. Un saluto ! Ale

  6. Marco:

    Senza neppure entrare poi nell’incubo della pronuncia di “smart working”, che nelle interviste di questi giorni diventa “smaruorchi”, con un giro da filodrammatica dialettale, l’unica vera cifra che ci caratterizza. 🙂

  7. Dioniso:

    Relativamente a telelavoro, ecco una porzione dell’email che ci ha mandato la mia azienda americana.

    Teleworking: Some offices are adopting teleworking policy. In general if you are sick or if you are coming back from countries considered at risk you need to stay home and work remotely for the next 14 days.

  8. Licia:

    Grazie a tutti per i dettagli. Mi domando se quelli che leggono notizie in inglese e usano smart working si siano resi conto che nei paesi anglofoni accomunati dall’emergenza COVID-19 non lo usa nessuno, e men che meno smart worker per descrivere chi lavora da casa?

    Intanto, sul modello di smart working (e di smart schooling) c’è anche chi si sta inventando e diffondendo nuovi pseudoanglicismi come smart dressing:

    #Restiamoacasa, con lo smart working arriva anche lo smart dressing

    Nelle intenzioni di chi scrive smart dressing sarebbe l’abbigliamento da usare quando si lavora da casa, in particolare se si viene coinvolti in videoconferenze o chiamate su Skype o altro. In inglese però smart dressing fa pensare a un condimento “furbo”, ad esempio per l’insalata, oppure a un qualche tipo di bendaggio con medicazione che non si attacca alla ferita. L’aggettivo smart è effettivamente molto usato in riferimento all’abbigliamento ma non ha nulla a che vedere con le modalità di lavoro: vuol dire elegante, curato, ben vestito! Inoltre, le collocazioni prevalenti sono dressing smart (aggettivo con funzione avverbiale) oppure smart dress code.


    Ne approfitto per ringraziare Anna Masera, public editor di la Stampa, per aver riportato le mie precisazioni sull’uso di smart working: Servono entrambi, ma c’è differenza tra telelavoro e “smart working”.


  9. granmadue:

    Forse le critiche che abbiamo mosso per l’uso di smart working (dico “abbiamo” perché ho contribuito anch’io, il 9 marzo, con un commento) possono essere parzialmente mitigate.
    Leggo su Potere alle parole di Vera Gheno (Einaudi, 2019) che il gruppo di studio Incipit, dell’Accademia della Crusca, ha in effetti proposto la locuzione lavoro agile come corrispettivo in italiano dell’inglese smart working.
    Naturalmente i motivi di biasimo per l’ingiustificato e inflazionato utilizzo di anglicismi, più o meno “pseudo”, rimangono tutti.

  10. Licia:

    @granmadue faccio una precisazione: la denominazione lavoro agile è apparsa in una proposta di legge nell’ottobre 2015 e il Gruppo Incipit si è espresso in proposito qualche mese dopo, nel febbraio 2016, con il comunicato stampa Accogliamo con piacere il “lavoro agile”. Conosco i dettagli perché ne avevo scritto in un post, Il lavoro agile italiano.

    Da cosa nasce la confusione? Ho notato che il presidente Marazzini, presumibilmente per semplificare la comunicazione, tende ad attribuire al Gruppo Incipit sia la paternità di lavoro agile che di collaborazione volontaria per voluntary disclosure, invece si tratta di scelte precedenti e indipendenti del legislatore.

  11. granmadue:

    Grazie Licia per il chiarimento e per i link.
    Concordo che sulla paternità di lavoro agile regni una certa confusione. Oggi il Professor Sabatini, in diretta tv, nel deprecare appunto l’uso di smart working, ha dichiarato che lavoro agile «è stato lanciato dall’Accademia della Crusca».

  12. Gio:

    Tanto per essere super chiari, “smart working” (oppure smarter working, working smart, working smarter, etc.), essendo in inglese un termine generico e non un vocabolo, potrebbe includere anche, che ne so, l’utilizzo di sedie ergonomiche negli uffici aziendali: indica qualsiasi cosa che si fa per “lavorare in modo intelligente”. Smart working potrebbe persino includere il dormire sulla scrivania durante l’ora di pranzo (come fanno in Asia), se uno la ritiene una pratica intelligente (di sicuro è meglio per la salute che riempirsi di caffè come si fa in occidente).

    Note varie
    – Links utili:
    https://en.wikipedia.org/wiki/Telecommuting
    https://en.wikipedia.org/wiki/Flextime
    https://en.wikipedia.org/wiki/Work–life_balance
    http://www.flexibility.co.uk

    – In English esiste anche il vocabolo “work-smart”, che significa:
    https://www.urbandictionary.com/define.php?term=work-smart

    – Enel Energia sta usando “smart working” nei loro messaggi di posta elettronica:
    “abbiamo riorganizzato le nostre attività sospendendo temporaneamente il servizio dei nostri Spazio Enel e lavorando in regime di smart working, comunque pronti e flessibili per rispondere alle tue esigenze.”

    “Regime di smart working”… Hahaha!

    E persino quelli di American Express (Italia), che in teoria dovrebbero essere più ferrati con l’inglese considerando chi sono, scrivono:
    “Da sempre attivi con lo smart working, abbiamo esteso il lavoro da remoto alla totalità dell’Azienda.”

  13. Antonello:

    Bravissima Licia, complimenti. Che dire? E’ ancora poco correggere questi termini spiegandoli nel loro significato e applicazione. In latino sicuro che non avremmo termini più indicativi e specifici? Ma non come per “job act” , “spending review”, ecc. che tutti pensano siano inglese. Qualcuno farà prima o poi una ripulita?

  14. Gio:

    Oh! Il mio commento non intendeva essere una critica.

    L’articolo è fantastico e lo sto girando ai miei contatti.

    Essendo madrelingua volevo semplicemente condividere alcuni miei pensieri a riguardo.

    Nel mio primo commento mi è sfuggito di evidenziare che l’articolo è eccellente…

    Buon lavoro e grazie!

  15. SRB81:

    Giusto per la cronaca, in Brasile lo chiamano “Home Office”.
    E’ un termine più appropriato di smart working, però mi ricorda tanto Microsoft Office Home Edition 😀

  16. Raffaele:

    Stanco di sentire sempre più anglicismi, per ultimo “open space” (che schifo), spero che qualche illustre mente riesca a capire il danno che stiamo arrecando ai nostri giovani. Risulta sempre più facile “inglesizzarci” che insegnare/imparare l’italiano.

  17. Antonio:

    Ciao Licia, ti seguo sempre con passione.
    Però sulla non corrispondenza di smart working in inglese mi sa che ti sbagli. Ho un caro amico che lavora anche con gli americani, e spesso si reca là, da molti anni oramai.
    E loro già tipo 8 anni fa usavano il termine smart working, appunto coadiuvato da tecnologie ecc., che li consentiva già di lavorare da qualsiasi luogo e senza quindi vincoli di tempo.
    Quindi non è corretto dire che non ha corrispondenti in inglese, l’abbiamo proprio preso da lì.

  18. Licia:

    @Antonio, mi dai lo spunto per ricordare la differenza tra parole (etichette, a volte usate in modo arbitrario) e i concetti che descrivono: qualche dettaglio in triangolo semiotico.

    In inglese esiste la locuzione smart working ma indica un concetto diverso da quello che intendiamo con smart working in italiano e che evidenzia caratteristiche distintive diverse, già descritte in Agilità sul lavoro!

    Basta dare un’occhiata ai media e ai social di lingua inglese in questo periodo per vedere che per identificare il concetto che in italiano viene chiamato smart working in inglese si usa principalmente working from home, da cui l’hashtag usatissimo su Twitter #WFH, ma non smart working.

  19. tiziano:

    Finalmente!!!!! Brava Licia – ma basta con sto “smart working” – se proprio si vuole fare i fighi usando termini in inglese “work from home” . Non se ne può più di sentire sta roba , ma poi .. sto lavoro (presunto) cosa avrai mai di smart?????

  20. massimo:

    Chiedo scusa, trovo pregevole questo articolo, ma in un paese dove regna l’ignoranza credo che rappresenti una solamente una piccola goccia di saggezza.
    L’unico mio appunto è legato a questo passo: “In inglese smart working ha un altro significato: indica una modalità di lavoro flessibile con processi migliorati e ricorso a tecnologie e strumenti che rendono il lavoro più funzionale perché agiscono in modo “intelligente” (smart).” Se io vado a Londra e parlo di smart working non mi capiscono perché semplicemente il termine non esiste. Ce lo siamo inventati noi italiani. Non vedo nessun rifermineto in documenti anglofoni al significato di smart working. Quindi per quanto ne sappia smart working non esiste.

  21. Surrexit vere:

    In realtà per come è percepito dal lettore medio lo smart working della quarantena era propriamente il telelavoro del Legislatore italiano: postazione fissa (casa propria) e orario più o meno determinato (flessibilità intragiornaliera che però oramai si ha quasi sempre anche in ufficio). Unica differenza rispetto ai colleghi in telelavoro è che la postazione indicata al Datore di Lavoro deve rispettare determinati requisiti, che uno che fa smart working non deve rispettare. E il Datore di Lavoro è tenuto a controllare il rispetto di tali requisiti.

    Quindi avendo visto da anni colleghi in telelavoro (con i loro rientri settimanali, bisettimanali o addirittura mensili) e avendo visto già da alcuni anni cosa intendono le aziende italiane per smartworking, al di fuori di quarantene (puoi lavorare dove ti pare e con la solita flessibilità giornaliera) nei mesi di quarantena avrei parlato senz’altro di telelavoro (differendo solo per i vincoli di postazione) e non certo di lavoro in o da remoto, che è più lungo e scomodo, quando tele- è facilmente comprensibile da chiunque.

  22. Licia:

    Aggiungo un altro uso fantasioso di smart da una dichiarazione del viceministro dello Sviluppo economico Stefano Buffagni a proposito delle polemiche sui lavoratori della pubblica amministrazione che a fine luglio 2020 continuano a lavorare da casa e a quanto pare non sono sempre produttivi: Lo smart working è una opportunità, una sfida che non dobbiamo bruciare, non deve essere un’occasione per qualcuno di fare smart holiday.

  23. Massimo:

    Grazie dell’esauriente spiegazione. Vivo in Inghilterra da 25 anni e non ho mai sentito nominare il termine smart working. Come dice giustamente lei, lì si parla solo di working from home (o WFH).

  24. Silvia:

    Buongiorno a tutti, vorrei chiedere delle delucidazioni in merito al telelavoro. Nell’articolo viene detto che compare per la prima volta nella legislazione italiana nel 2004: a quale provvedimento si fa riferimento? E non vi si faceva riferimento già nel ’98, ’99 e 2000?

    Vi ringrazio per l’attenzione, sono interessata all’argomento e vorrei capire meglio

  25. Licia:

    @Silvia qui mi sono occupata degli aspetti terminologici, non di quelli giuridici, che consiglierei di approfondire altrove. In ogni caso, la data 2004 fa riferimento al recepimento in Italia dell’Accordo Quadro Europeo sul telelavoro del 16 luglio 2002 e la troverà citata in varie fonti. In precedenza il telelavoro era stato disciplinato dal legislatore solo per il settore pubblico (sono informazioni che si trovano facilmente).

  26. Maria P. Scarpetta:

    Il telelavoro dal punto di vista giuridico non va confuso con il lavoro da casa che è stato attivato nell’emergenza della pandemia, e che per ora è disciplinato da una normativa emergenziale.
    Ciò detto, visto che appunto si doveva coniare un termine nuovo per evitare la confusione col telelavoro, si poteva benissimo inventare una locuzione italiana.

    Tra l’altro costruzione e pronuncia inglesi sono più difficili da armonizzare nell’italiano rispetto a costruzione e pronuncia delle lingue neolatine.

    L’inglese è una lingua eccezionale, che è stata accolta in tutto il mondo grazie alla sua spontaneità, ma questa bellissima caratteristica non deve, a mio avviso, far sì che la razionalità, la logica e la creatività di altre lingue siano cancellate.

    Anche nel tedesco c’è stata un’invasione di parole inglesi (si veda la spassosissima canzone del gruppo Die Prinzen: Be cool speak Deutsch), ma se da un lato ci sono delle assonanze che generano divertenti equivoci, dall’altro la pronuncia inglese è più facile per un madrelingua tedesco e la costruzione con il genitivo o con l’aggettivo prima del nome è presente anche in tedesco. Un tedesco quantomeno non salterà le “h” come fanno gli italiani, che dicono ad esempio “I” (io) invece di “high” (alto) rendendosi incomprensibili e poi lamentandosi della “scarsa elasticità” dei madrelingua.

    Eppure ho conosciuto (e sentito parlare con le mie orecchie) persone che oggi avrebbero 100 anni parlare perfettamente inglese, con la giusta pronuncia, perché la scuola italiana a quei tempi insegnava la fonetica anche in italiano.

    Insegnava grammatica e analisi logica già molto bene sin dai primi anni: ho sentito alcune persone che hanno interrotto gli studi a dodici anni parlare con una proprietà di linguaggio che oggi sarebbe invidiabile a qualsiasi età.

    Sarà vitale nella scuola italiana restituire la giusta importanza alla materia dell’italiano, oggi ridotta spesso ad un’ora di piacevole chiacchierata spontanea. Va bene la spontaneità, ma si badi che neppure l’iter formativo inglese lascia molto spazio alla spontaneità nell’uso della lingua. Provate ad essere inglesi e vedrete.
    Un inglese non ti verrà mai a dire che parli male, ma lo penserà, non ti correggerà se non dietro congruo pagamento, perché sa bene il valore di quella competenza.

    La sciatteria in inglese è tipica di chi la parla come lingua straniera, nell’ingenua convinzione che ad uno straniero si perdoni l’imprecisione, per poi importare nella sua propria lingua la medesima sciatteria.

    Si rischia di non parlare più in nessuna lingua, non pensare in nessuna lingua, non riuscire ad esprimersi.

    Varrà la pena di fare uno sforzo, per non perder la favella?

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