“Se lo dice il dizionario…”

Se lo dice il dizionario

“Se lo dice il dizionario…” L’utente tra i dizionari dell’uso e le nuove risorse digitali è un articolo che ho scritto per il Portale Treccani.

Nella prima parte ho descritto alcune percezioni errate legate ai dizionari dell’uso, che descrivono il lessico contemporaneo ma non “approvano” o “certificano” i neologismi e non consentono diagnosi sullo stato di salute di una lingua.

Nella seconda parte ho identificato alcune alternative ai dizionari tradizionali, come ad es. i dizionari collaborativi e le raccolte di dati lessicali ottenute con progetti in crowdsourcing. Ho evidenziato le caratteristiche innovative ma anche alcuni punti deboli che rendono necessaria cautela nella consultazione.

Attenzione ai conteggi!

Mi è stato proposto di scrivere un articolo sull’uso dei dizionari in seguito ad alcuni tweet in cui avevo espresso perplessità sui dati presentati in un altro articolo del Portale:

Domanda di Corbolante: Quanto sono significative le analisi sull’incidenza dei forestierismi basate esclusivamente su numeri ricavati da spoglio di dizionari, senza tenere conto di frequenza, distribuzione, variabili sociolinguistiche, specializzazione, modalità d’uso e altri fattori? Mi fa pensare a un’analisi dello stato di salute dei cittadini di un paese basata esclusivamente sul numero di patologie elencate in un’enciclopedia medica, senza distinzioni (diffusione, incidenza, infettività, ricorrenza…)

È per questo che il mio contributo cita esplicitamente I forestierismi nei dizionari: quanti sono e di che tipo e un intervento correlato, L’inglese nell’italiano: espansione per ibridazione. Entrambi gli articoli sono infatti caratterizzati da conteggi di lemmi da dizionari a supporto di tesi sullo stato di salute dell’italiano.

Ritengo però che sia un uso improprio dei dizionari, accettabile come provocazione per un dibattito sul lessico contemporaneo ma altrimenti un esempio di “quantifauxcation” che si presta a fraintendimenti da parte di chi non ha competenze linguistiche adeguate per una valutazione obiettiva dei dati. Penso ad esempio ai politici che potrebbero farne derivare la necessità di interventi legislativi a protezione della lingua italiana. 

Se l’argomento vi interessa, fatemelo sapere nei commenti così posso aggiungere esempi e riferimenti più specifici non inclusi nell’articolo. 

“Se lo dice il dizionario…” L’utente tra i dizionari dell’uso e le nuove risorse digitali


NB  Il testo è stato scritto qualche settimana fa e quindi non include riferimenti alla polemica recente sull’inclusione della locuzione sovranismo psichico in un elenco di neologismi, una conferma che persistono grossi fraintendimenti sul lavoro dei lessicografi.

9 commenti su ““Se lo dice il dizionario…””

  1. Mauro:

    In effetti, da profano, devo dire che a me non dà nessun fastidio che tante parole straniere siano entrate nell’uso.
    Mi dà invece molto fastidio quando vengono usate troppo frequentemente.

  2. Licia:

    @Mauro, non so se ho capito cosa intendi. Aggiungo che il fenomeno dei forestierismi è particolarmente evidente soprattutto nei media, che però non sono rappresentativi dell’uso della lingua da parte dei parlanti (esposizione passiva che non corrisponde a un uso attivo). Ci sono vari studi, per l’italiano ma anche per il francese, che hanno mostrato come molti di questi anglicismi siano hapax, usati cioè una volta sola. Anche per questo qualsiasi considerazione sull’impatto degli anglicismi deve tenere conto della loro frequenza. A questo proposito, come fisico penso ti possano interessare i riferimenti alla frequenza in statistiche linguistiche, in particolare l’andamento zipfiano. Altre considerazioni su frequenza e distribuzione in uno scambio che avevamo avuto in Anglicismi, che passione!?
    Vanno inoltre considerati altri parametri, ad es. nella lessicografia dell’inglese si discute di coreness e, ultimamente, anche di word prevalence. Potrei parlarne in un prossimo post.

  3. zop:

    A proposito di “percezioni errate legate ai dizionari“ forse dovresti riflettere sulle tue, visto che mi hai citato a sproposito attribuendomi, come è successo altre volte, affermazioni che non mi appartengono. Citare delle frasi cui dare un senso diverso da quello che hanno nel loro contesto è un vecchio trucchetto per screditare gli avversari sul cui giudizio non è il caso di soffermarsi. In particolare vorrei smentire che il significato della mia frase di sintesi: “L’ibridismo è una caratteristica dell’interferenza dell’inglese che non si registra nel caso di altre lingue” sia da fraintendere come hai fatto tu, lasciando credere che non si registri per esempio nel francese. Come spiegato e documentato nell’articolo che citi – basta leggere e essere onesti – significa al contrario che i francesismi entrati nell’italiano, per esempio, non generano ibridazioni se non nei pochissimi casi che ho citato (da creperia a voyeurismo), che sono esprimibili nell’ordine della decina contro le centinaia nel caso dell’inglese. Affermazione che ti sfido a confutare e che non c’entra nulla con il testo di Valérie Saugera che usi per smentire una cosa che non ho detto. Tu sei liberissima di scrivere e pensare quello che vuoi, ma non ti consento ti attribuirmi queste sciocchezze. Dire che mi sono “servito dei conteggi dei forestierismi di diverse edizioni di dizionari dell’uso per affermare che oltre il 50% delle parole del nuovo millennio è di origine inglese” è un’altra affermazione che la dice lunga sulla tua onestà intellettuale, visto che non è una mia interpretazione, è un dato oggettivo, un conteggio e che ho scritto: “Stando alle datazioni di Zingarelli e Devoto Oli, quasi la metà delle parole del nuovo Millennio è in inglese puro, ma si supera il 50% se si conteggiano anche le forme ibride” il che è un fatto incontrovertibile, persino riconosciuto da Giuseppe Antonelli che però si è limitato al conteggio automatico non integrato dalle ricerche manuali, e dunque ha constatato che fossero un po’ meno del 50%. Del resto in un articolo intitolato “I forestierismi nei dizionari: quanti sono e di che tipo” è normale che si conteggino le cose. Ti invito a contare e a confutare anche questo dato, se pensi che non sia così. A non confondere i fatti, innegabili, dalle interpretazioni, quelle sì oggetto di dibattito. E a smettere di dire che le mie affermazioni “sono basate esclusivamente sullo spoglio dei dizionari” è falso. Un tempo dicevi che erano basate solo su Ngram Viewer, mettiti d’accordo con te stessa, basta leggere le cose che scrivo per constatare tutti gli altri parametri che utilizzo, dalla decuplicazione degli anglicismi nel dizionario di base di De Mauro, alle frequenze sui giornali, dalla classificazione per ambito alla denuncia proprio delle variabili sociolinguistiche che portano a usare l’inglese per elevarsi… Non mi interessano le tue interpretazioni diverse dalle mie, ma ti diffido dal continuare a denigrarmi in modo scorretto attribuendomi affermazioni mendaci.

  4. Licia:

    @zop, siamo entrambi appassionati della lingua italiana e critici verso gli anglicismi, solo che lo facciamo con conoscenze, competenze e punti di vista diversi. Qualsiasi linguista ti potrà confermare la correttezza delle mie osservazioni sugli usi impropri dei dizionari.

  5. Mauro:

    @Licia
    Sull’hapax OK, lo so.
    Ma purtroppo vedo tante parole inglesi perfettamente sostituibili da termini italiani venire usate in continuazione.
    Finché vengono usate una tantum, non mi infastidiscono. Ma invece usate così spesso mi fanno venire voglie omicide!
    Il primo esempio che mi viene in mente è “food”. Ma ce ne sono svariate.

  6. Flavia:

    Penso sia abbastanza vero – almeno dal mio punto di vista – che il ‘problema’ degli anglicismi appartenga all’ àmbito giornalistico: dai media sorgono i termini e sui media li si discute, con poco o nullo riscontro nella vita reale. Non a scuola, per certo, dove non mi è (quasi) mai capitato di sentire gli insegnanti d’italiano esprimere preoccupazione per il fenomeno che stiamo trattando; d’altro canto, gli insegnanti di lingua inglese sì che si preoccupano delle continue interferenze (soprattutto di pronuncia) che entrano nell’aula di lingua straniera.
    Ma la scuola non è – come i media – il mondo reale: vi si formano soltanto i futuri professionisti dei media.

  7. Monmartre Angeloise:

    Buon giorno,
    non sono molto d’accordo colla sottovalutazione del problema.
    Affermare che i barbarismi «non sono rappresentativi dell’uso della lingua da parte dei parlanti», ma una questione che riguarda soltanto i mezzi di comunicazione, mi sembra un non guardare piú in là del proprio presente.
    L’abuso è soltanto nei giornali, in rete, nella pubblicità, nella televisione, nella politica, nelle notizie sportive. Bene, cos’altro è rimasto fuori? È vero che la gente impara a scuola e sui libri (per ora ancora in italiano – ma già all’università s’impara in corsi soltanto in inglese –), ma poi si consolida il proprio vocabolario in una selva infetta: gli argomenti di dialogo sono intossicati da calchi e hapax e altre malattie varie.
    A proposito del suo esempio sulle malattie, anche il semplice elenco è indicativo (non significativo e determinate) di possibili considerazioni. Se leggo (invento) l’elenco delle malattie presenti in Italia e non vedo comparire la zica, l’ebola, l’influenza, il morbillo, il tifo… qualcosa vorrà dire. Se leggo le malattie presenti in Italia e ne conteggio (invento) diecimila diverse e poi le confronto colle cento francesi, posso affermare, anche senza dati sulla distribuzione, che la sanità in Francia funziona, probabilmente, meglio.
    Sono sempre convinto che lo stato non debba intervenire legislativamente sui «parlanti», ma debba assolutamente intervenire sui “rappresentanti dei parlanti” in modo che l’esposizione passiva (quella predominate oggi) non sia ammorbata e mortifera.

  8. John Dunn:

    L’articolo è molto interessante e molto utile, anche perché in questi mesi sto compilando un elenco di anglismi nella lingua russa. Per me il problema della frequenza esiste, ma non è il più difficile da risolvere. Più problematici sono l’arco di tempo e l’ambiente in cui viene usato questo o quello anglismo. Una parola o una espressione può entrare nel vocabolario generale, ma solo per un period più o meno ristretto (un esempio italiano può essere la famigerata stepchild adoption). Visto che queste parole ed espressioni non spariscono totalmente, non è chiaro se si può dire che sono diventate obsolete. Poi ci sono gli anglismi che fanno parte del vocabolario centrale solo di certe categorie di persone (p. es. specialist in informatica), senza essere gergali nel senso stretto. In generale preferisco includere anglismi di questi tipi, ma la decisione non è sempre facile.

  9. Licia:

    @Flavia, @Monmartre Milano a parte, se si ascolta come si esprimono i parlanti nel quotidiano, gli anglicismi sono davvero molto limitati (l’inevitabile esposizione alle conversazioni altrui sui mezzi di trasporto è un indicatore efficace!). Proprio perché buona parte degli anglicismi “da vocabolario” ci sono estranei, ci suscita così tanto fastidio il loro abuso nei media, da parte delle istituzioni e in alcuni ambiti specifici.

    Il linguista Giuseppe Antonelli nel capitolo Gli anglicismi in Il museo della lingua italiana descrive l’invasione di anglicismi come un’illusione ottica, per tre motivi: 1 l’influenza dell’inglese riguarda solo il lessico – l’aspetto più superficiale della lingua – ma non ha intaccato la struttura, la grammatica o la sintassi dell’italiano come invece in passato ha fatto il francese (cfr. Influsso del francese sulla morfologia e la sintassi in francesismi nell’Enciclopedia dell’Italiano Treccani); 2 breve vita della maggior parte degli anglicismi, come è successo a molti dei francesismi di moda nei secoli scorsi; 3 l’alta affluenza delle parole inglesi riguarda solo alcuni settori. Conclude Antonelli: “una presenza obiettiva contenuta in percentuali fisiologiche viene avvertita come preoccupante solo perché amplificata a dismisura dal frastuono mediatico”.  

    Ci sentiamo sempre direttamente coinvolti nelle discussioni sulla lingua e a volte può risultare difficile non farsi influenzare da proprie percezioni. Eviterei però di riferirsi ad elementi del lessico con parole connotate come barbarismo, selva infetta, intossicare, ammorbare, mortifero perché non consentono di affrontare l’argomento in modo obiettivo e mi pare indichino invece la presenza di pregiudizi.

    @John, infatti: non esiste una regola universale su cosa includere e cosa escludere dai dizionari. Credo inoltre che per l’italiano continui a essere molto diffusa l’idea di “dizionario specchio della lingua”, invece sarebbe più utile pensare al dizionario come “strumento per risolvere problemi”, ad esempio per trovare una spiegazione a un’espressione che non è più usata attivamente ma che potrebbe essere tuttora citata (cfr. risposta di Treccani sull’inclusione di sovranismo psichico in un elenco dei neologismi).

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