Jessica Mariani: Chi sono davvero i “migranti”?

Un’informazione corretta sui temi della migrazione passa innanzitutto dalla scelta delle parole che guidano la narrazione perché possono avere accezioni diverse a seconda del contesto, del ruolo di chi le usa e delle percezioni del pubblico a cui sono rivolte. 

migration in translation

Jessica Mariani ha analizzato queste dinamiche nella sua tesi di dottorato, Migration in Translation: the role of terminology and trans-editing in shaping the crisis in EU institutions.

Mi fa molto piacere ospitare un suo intervento: le ho chiesto di delineare gli aspetti terminologici più significativi della sua ricerca, di spiegarci cos’è l’etnografia linguistica e di descriverci il ruolo dei traduttori in questo tipo di comunicazione.

Un grosso grazie a Jessica e a tutti buona lettura!

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Chi sono davvero i “migranti”?
Parole e termini a spasso nel tempo

di Jessica Mariani

Inizio da qualche riga su di me. Nasco come comunicatrice con una forte indole nomade sin dai tempi dell’università. Per questo ho (forse) deciso di dedicarmi ai temi della migrazione e ho trasformato un’esperienza lavorativa al Parlamento europeo in una ricerca che porta il nome di “Migration in Translation” (MIT). Lo studio – condotto sul campo a Bruxelles e a Lussemburgo – ha analizzato il ruolo che terminologia e traduzione hanno giocato e giocano nella narrazione della crisi migratoria. Quattro anni di ricerca per osservare l’uso di 54 termini in inglese ed i loro equivalenti in italiano nei documenti legislativi e comunicati stampa dal 1950 al 2016.

Consapevolezza terminologica nella comunicazione istituzionale

Le parole migrano, come le persone. Parole e termini sono etichette assegnate ad oggetti che rimandano ad uno o più concetti (triangolo semiotico) che possono cambiare nel tempo e a seconda del contesto. All’inizio, mentre strutturavo il progetto MIT, rimanevo sempre ferma su un punto: gli studi diacronici sulle parole che cambiano nel contesto politico o mediatico sono interessanti e oserei dire in esubero, ma sono spesso decontestualizzati. Chi ha scelto quel termine? In che contesto lavora? Perché ha fatto questa scelta? È accurato (e interessante) raccontare come è cambiato un termine estirpandolo dal suo contesto? A questo punto ho pensato di integrare lo studio dei testi con il loro contesto ed i loro autori. Questo approccio porta il nome di etnografia linguistica, una metodologia antropologica che studia i contesti attorno alle parole e coloro che le scelgono. Ed è per questo che prima di parlare di “migranti” vorrei accennarvi di come si scrive di migrazione nel contesto istituzionale europeo.

Tutti conosciamo la frase di Umberto Eco “La Lingua dell’Europa è la Traduzione”. Verissimo. In ambito istituzionale tutti traducono, in modi diversi, e su vari livelli. MIT mi ha permesso di lavorare fianco a fianco con comunicatori, traduttori e terminologi al Parlamento europeo per delineare quel confine in cui comunicazione, terminologia e traduzione si incrociano. Iniziamo da un fatto che forse non tutti conoscono: al Parlamento europeo, i traduttori professionisti si occupano di tradurre i testi legislativi, ma per molti altri tipi di testi generici (articoli, newsletter, comunicati stampa e discorsi politici) a tradurre sono anche comunicatori o altri addetti ai lavori. Non c’è una politica ben definita, variano i casi, i ruoli ed i risultati. Quel che è certo è che il contesto istituzionale europeo richiede un bilanciamento ottimale tra lessico generico (parole) e lessico specifico (termini) che non sempre riesce. Una bella sfida! Essere consapevoli del ruolo della terminologia e dei diversi professionisti che se ne occupano nella comunicazione istituzionale è un punto di partenza ed ha un impatto decisivo sulla percezione dei cittadini rispetto a fenomeni come la migrazione.

Da comunicatori a traduttori (e viceversa) il passo è breve

La mia missione con gli addetti stampa del Parlamento europeo è stata quella di portare alcune nozioni base della terminologia, come la differenza tra parole e termini ed il triangolo semiotico, e confrontarle con I risultati del mio studio. In una tavola rotonda ci siamo confrontati su molti punti, tra cui:

➝ perché è importante evidenziare la differenza tra “migrants” (migranti), “refugees” (rifugiati) ed “asylum seekers” (richiedenti asilo) se il testo di partenza fa riferimento a tutti e tre i concetti.

➝ come si possono verificare (velocemente) le corrispondenze tra concetti e termini utilizzando il database terminologico europeo IATE. La rapidità quando si fa comunicazione è essenziale e ci vogliono metodi più sicuri che vadano oltre a “Google Translate”.

➝ La confusione nel tradurre “human smuggling” (traffico di essere umani) e “human trafficking” (tratta di esseri umani), concetti diversi resi a volte con I termini sbagliati.

Per questo parlo di consapevolezza. Nel contesto istituzionale ci sono regole precise nell’uso di termini e parole, che devono sempre riflettere la posizione di un deputato o del Parlamento stesso. E se un deputato sbaglia volutamente o non la terminologia? Lì son dolori! Bisogna consultarsi e pesare sempre le parole per diminuire il rischio di fraintendimenti e assicurare una corretta comprensione delle informazioni. Con traduttori e terminologi ho discusso delle strategie di comunicazione che si possono implementare mentre si traduce un testo generico senza “violentarlo”, per trovare il giusto equilibrio tra rigidità linguistica e creatività comunicativa. In molti casi di testi tradotti da traduttori e poi revisionati da comunicatori, il testo risultava corretto nel contenuto ma povero di impatto verso il target. Qual è la soluzione? In primis sarebbe importante conoscersi e riconoscersi in quanto professionisti. Entrambe le parti hanno da imparare l’uno dall’altra, attraverso seminari mirati e neanche troppo lunghi. Ed è da questa discrepanza che è derivata (e deriva) gran parte della confusione terminologica sui temi della migrazione.

Spazio ai termini! Cosa ho scoperto con MIT?

Veniamo al nocciolo della questione. “Migrante” è una parola che oggi abbonda sulle bocche di politici, opinionisti e giornalisti. I “migranti”, secondo la definizione ufficiale riportata dal database terminologico UE IATE, sono “persone che attraversano i confini per stabilirsi e lavorare temporaneamente in altre nazioni”. È un termine “ombrello” che non ha una precisa definizione giuridica e che racchiude tutte le motivazioni che spingono qualunque essere umano a muoversi e stabilirsi in un altro paese. Nell’uso comune e nell’immaginario collettivo odierno “i migranti” sono diventati coloro che arrivano disperatamente sulle nostre coste via mare. Attraverso la terminologia si possono evidentemente tracciare la storia e le tendenze della società, ed è questa la prima ipotesi confermata dal progetto MIT. Ecco un paio di esempi.

1. “Migranti”

La parola “migranti” compare nei testi legislativi europei solo negli anni ’80, quando si inizia a concepire il movimento come una libertà e non solo come un mezzo per trovare lavoro. Negli anni ’50 si parlava esclusivamente di “lavoratore migrante” (migrant worker) o “lavoratore frontaliero” (frontier worker) e non esisteva il concetto di migrare per motivi diversi dall’impiego lavorativo.

Poi, con le vicissitudini storiche comprese tra il 1974 ed il 1989 iniziano a diffondersi maggiori controlli alle frontiere e si comincia a migrare per motivi sia economici sia umanitari. Negli anni ’70 vediamo comparire “rifugiato” (refugee), termine giuridico sancito dalla Convenzione di Ginevra che introduce lo status di rifugiato e dagli anni ’80 gli iponimi di “migrante”, “immigrato” (che ha migrato verso) ed “emigrante” (che migra da) che vanno a specificare la direzione del flusso migratorio. Con l’introduzione di Schengen negli anni ’90 e la firma del Trattato di Maastricht nel ’93 assistiamo ad un’ondata di nuovi termini della migrazione, tra i quali “richiedente asilo”, che da un lato rendono giustizia ai vari fenomeni migratori, diversificandoli, dall’altro causano uno tsunami terminologico che trasforma il buon uso dei termini in una sorta di abuso terminologico. Se da un lato, nei testi legislativi, si assiste al calo nell’uso del termine “migrante”, dall’altro quest’ultimo si diffonde a macchia d’olio nei testi generici, segnalando insofferenza e indecisione. Insomma, il troppo sembra avere un po’ stroppiato!

2. La determinologizzazione di “refugee”

Con il termine “refugee” (rifugiato) è successo e sta succedendo esattamente il contrario. Nato come termine specifico e con valore legale, il “rifugiato” è colui a cui viene riconosciuto lo status in base alla Convenzione di Ginevra. In seguito al boom terminologico degli anni ’90 e 2000, e complice forse la forte campagna delle Nazioni Unite “Word Choice Matters” (le parole contano), “refugee” inizia a riferirsi anche a coloro che hanno elevate probabilità di ottenere lo status perché scappano da guerre e conflitti, i cosiddetti “would-be refugees”. In italiano “refugee” viene reso con due equivalenti: da un lato con “profugo” (senza certezza di ricevere lo status ma con probabilità di ottenerlo) e “rifugiato” (colui a cui è stato riconosciuto ufficialmente lo status). Quando un termine perde, anche se parzialmente, il suo significato specifico per assumere un significato diverso nel lessico generico si parla di “determinologizzazione”. “Refugee” ha quindi un doppio uso ed è risultato essere il termine più utilizzato.

E in conclusione?

MIT ha aperto la strada alla terminologia nel mondo della comunicazione istituzionale, per mostrarne l’impatto e raccontare i fenomeni migratori attraverso le parole e i loro autori. Il concetto di “migrante” è cambiato nel tempo, anche se la sua definizione riporta sempre la parola “persone” che per motivi diversi decidono di muoversi. Penso che la ricerca non debba portare solo conclusioni ma anche riflessioni e spunti. Il processo attraverso cui si raggiunge il risultato è a volte quasi più incisivo del risultato stesso!

copertina della tesi


Per saperne di più:

Profilo di Jessica Mariani
Studio integrale Migration in Translation
MIT su Radiopopolare
Altri articoli su MIT


2 commenti su “Jessica Mariani: Chi sono davvero i “migranti”?

  1. Loris:

    Una curiosità: perché si usa il participio presente per emigrante e il participio passato per immigrato? Solo perché rispetto all’emigrante si vuole sottolineare il legame con la patria, che non verrebbe mai meno?

  2. Licia:

    @Loris è un esempio di variazione diacronica: all’inizio del XX secolo erano molto usati immigrante ed emigrato e avevano una frequenza d’uso decisamente maggiore a migrante, che è una parola entrata nell’uso comune solo alla fine del XX secolo. Qualche dettaglio in Migranti, emigrati e immigrati (un post del 2014). 

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