Anglicismi governativi: stepchild adoption

uomo 1: “VOGLIONO LA STEPCHILD ADOPTION” uomo 2: “CAZZO! E IO NON SO NEANCHE L’INGLESE”
Vignetta di Altan via F.M. Fontana

Nelle dichiarazioni dei politici e nelle notizie sul disegno di legge “Cirinnà” sulle coppie di fatto e sulle unioni civili è ricorrente la locuzione stepchild adoption, l’adozione del figlio biologico del partner nelle coppie dello stesso sesso. È un anglicismo insostituibile, utile o superfluo?

La locuzione stepchild adoption viene presentata dai media come un istituto del diritto anglosassone, quindi si tratterebbe di un termine di un ambito specialistico che rappresenta un concetto specifico. Ho enormi perplessità su questa interpretazione.

Stepchild adoption: lessico comune o specialistico?

Stepchild è una parola del lessico comune inglese che equivale a figliastro, senza però le connotazioni negative della parola italiana. Anche la locuzione stepchild adoption non ha particolari significati specialistici e pare piuttosto un’invenzione della politica italiana.

Basta fare qualche ricerca nei siti governativi del Regno Unito per averne conferma, ad es. in Child adoption (portale istituzionale GOV.UK) si trova anche adopting a stepchild e adopt your spouse’s or partner’s child. Se stepchild adoption fosse un termine giuridico, la formulazione rimarrebbe invariata. Osservazioni empirica ma significativa: nella versione inglese di Wikipedia non esiste la voce stepchild adoption (c’è invece LGBT adoption). Inoltre, i media di lingua inglese che danno notizia del dibattito italiano usano la locuzione stepchild adoption tra virgolette o preceduta da so-called, o non la usano affatto: dettagli in Unioni civili e traduzione (con civil partnership).

Terminologia del legislatore italiano

Art. 5. (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184) 1. All’articolo 44, comma 1, lettera b), della legge 4 maggio 1983, n. 184, dopo la parola: «coniuge» sono inserite le seguenti: «o dalla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso» e dopo le parole: «e dell’altro coniuge» sono aggiunte le seguenti: «o dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso».Nel disegno di legge Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili la cosiddetta stepchild adoption è prevista dall’articolo 5, dove però non c’è traccia dell’anglicismo. Nell’introduzione del ddl viene usata la formula adozione non legittimante nei confronti del figlio naturale dell’altra parte e qui a fianco c’è il testo dell’articolo 5 (cfr. anche la legge 4 maggio 1983 n. 184), che si limita a estendere il diritto del minore a una famiglia, già previsto all’interno delle coppie eterosessuali, anche a quelle omosessuali.

Anglicismo superfluo!

A questo punto è abbastanza palese che stepchild adoption è un anglicismo superfluo. Nel lessico giuridico ha un equivalente italiano (vedi disegno di legge) e nel lessico comune può essere sostituito dalla locuzione adozione del figlio del partner, che consente di mantenere la distinzione tra coniuge (matrimonio) e partner (unione civile). Questa soluzione evita le connotazioni sgradevoli della parola figliastro e, al contrario dell’anglicismo, è totalmente trasparente.

Alle considerazioni già fatte in Ancora itanglese e in Anglicismi governativi: voluntary disclosure (anglicismi superflui = elitarismo, poco rispetto per l’interlocutore, discrepanze tra comunicazione pubblica e testi legislativi ecc.) aggiungo il disappunto per il messaggio negativo che ci arriva dalle istituzioni: si ha l’impressione che l’italiano non abbia le risorse lessicali adeguate per esprimere nuovi concetti e che quindi si debba ricorrere a prestiti da altre lingue.

Aggiornamento febbraio 2016 – Il linguista Francesco Sabatini suggerisce di sostituire l’anglicismo con un neologismo italiano: dettagli in Da stepchild a configlio.

…e pseudoanglicismo

Intanto ho scoperto che stepchild adoption viene abbreviato in stepchild e così si trasforma in uno pseudoanglicismo, un accorciamento improprio già visto: tipico esempio è spending review, che i nostri politici hanno trasformato in un assurdo spending.

Ho notato anche ripetute occorrenze di step child adoption (tre parole), un errore che indica scarsa conoscenza dell’inglese e aumenta le perplessità sull’effettiva comprensibilità dell’anglicismo. Viene fatta confusione tra il sostantivo step (“passo”, “scalino”, “piolo” ecc.) e il prefissoide step che in inglese indica un rapporto di parentela instaurato da un nuovo matrimonio: stepmother e stepfather sono matrigna e patrigno, stepson e stepdaughter figliastro e figliastra. Etimologia del prefissoide: dall’inglese antico stēop, di origine germanica, con il significato di “orfano” o “privato di un familiare”.

Altri errori di grafia e di pronuncia in un nuovo post, Lo step– della stepchild adoption (gennaio 2016).


La parola partner è entrata in uso in italiano nel 1862 (Devoto-Oli), quindi possiamo escluderla da qualsiasi discussione sui forestierismi superflui.

Vedi anche: Elenco di anglicismi istituzionali

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10 commenti su “Anglicismi governativi: stepchild adoption

  1. Massimo S.:

    “La parola partner è entrata in uso in italiano nel 1862 (Devoto-Oli)”.
    Ma in quale contesto e con quale significato veniva usata, e da quanti parlanti?
    Forse potevano usarla Giuseppe Garibaldi e Antonio Meucci, che vissero anche in America, ma gli altri?

    E oggi chi usa partner utilizza la parola unicamente per indicare il proprio compagno o la propria compagna nell’ambito di un’unione più o meno stabile, oppure anche per indicare il compagno occasionale o il proprio socio in affari, o il collaboratore d’impresa, o il collega con cui si fa coppia o gruppo nel lavoro o in altre attività anche ludiche e di svago?

    E ci lamentiamo poi che siamo in affanno, come istituzioni, ma anche come individui parlanti l’italiano, a descrivere in italiano nuovi concetti?

    Proposte di sostituzione, nello specifico contesto di cui si discute, che possono essere quanto meno un punto di partenza per una riflessione approfondita, invece di “arrendersi senza condizioni” a locuzioni straniere o con termini stranieri, ancorché lungamenti presenti nella lingua italiana:

    1. “adozione del figlio del compagno” (con compagno al maschile, per indicare anche il genere femminile, come del resto si fa con figlio), o, se si preferisce specificare,
    2. “adozione del figlio della compagna o del compagno”; ovvero
    3. “adozione del figlio del sodale”, rispolverando l’antico termine latino derivante da sodalizio da contrapporre a coniuge. Accanto al matrimonio, vi sarebbe così il sodalizio civile (locuzione usabile anche per persone del medesimo sesso), di cui i sodali (uomini e/o donne) sarebbero le parti;
    4. “adozione del figlio dell’altra persona (dell’unione)”.

  2. Anna Laura:

    Sono d’accordo con te che gli anglicismi sono poco trasparenti e creano confusione. Nell’opinione comune molti sono convinti che stepchild adoption sia la generica adozione di minori consentita anche alle coppie omosessuali.

  3. Massimo S.:

    @Licia.

    Effettivamente è proprio l’aspetto della parola partner a suscitare la mia perplessità… oltre alla presenza di un perfetto equivalente italiano, “compagno/a” diffusissimo, mi pare, nelle discussioni di tutti i giorni, per indicare proprio quelle persone che si vorrebbero designare con partner.

    Ad ogni modo, valorizzando uno spunto del tuo rimando, noto pure che nella vita di tutti i giorni chiamiamo soprattutto compagno e/o compagna coloro che hanno una relazione amorosa o una vita di coppia non ‘ufficializzata’ più o meno stabile:

    “Quest’estate sono stata a Ventotene con il mio compagno e i suoi figli”; “Salutami la tua compagna che non vedo da tempo” e così via, diciamo, mi pare, nelle conversazioni di tutti i giorni.

    Partner, invece, lo leggiamo sulle riviste, sui quotidiani, o sui manuali di educazione sessuale, o lo ascoltiamo alla radio o alla televisione…

    Sempre seguendo le suggestioni del tuo rimando, lo indicherei come uno di quei termini inglesi (ancorché attestato in italiano da oltre un secolo e mezzo) che contribuiscono a far aumentare la percezione di un’invasività dell’inglese nella lingua italiana che nella realtà sarebbe assai meno estesa.

    Proprio ieri, nell’ultima edizione di non ricordo più quale telegiornale, in un resoconto sul tormentato dibattito delle unioni civili in corso tra le forze di governo, la cronista per spiegare il concetto della “stepchild adoption” ha detto testualmente “adozione del figlio del o della partner”, frase che poteva benissimo esser sostituita dall’esempio 2. del mio post precedente.

    [La frase in commento, tra l’altro, dimostra l’illusorietà di voler preferire per brevità di linguaggio le “concise” locuzioni inglesi (tipo hotspot) rispetto alle elaborate perifrasi italiane, a cui dobbiamo, poi, ricorrere lo stesso, se vogliamo render chiaro il significato della locuzione straniera che sia del tutto estranea ai più… sempre che ci stia a cuore far veramente intendere di che cosa si sta dibattendo…]

    Ma nel linguaggio di tutti i giorni partner lo usiamo di rado (almeno questa è la realtà, che ho sotto gli occhi), e in tono talvolta ironico e scherzoso, per indicare il compagno o la compagna di una coppia sia o no di fatto.

    E allora, perché una volta tanto, anche nel linguaggio dei media, non diamo spazio alla viva lingua che parliamo tutti i giorni, proprio per preservarne la vitalità?

    Tanto più, mi pare, che ‘compagno’ nell’accezione di cui qui si discute è compreso da tutti, dal fisico candidato al Nobel di Torino alla casalinga, magari anziana, di Avellino; non è affatto un termine ‘volgare’ o ‘plebeo’ ed è privo di qualsiasi connotazione negativa al punto che lo usiamo tranquillamente nelle nostre relazioni sociali senza timore di offendere i nostri interlocutori, e gli stessi interessati lo usano per indicare sé stessi e il loro compagno o la loro compagna.

    Infine, preferendo compagno/a a il/la partner, nei media e nella scrittura delle leggi faremmo comunque scendere di qualche centesimo di grado la temperatura del “morbus anglicus”, si tratti o meno di temperatura solo percepita, facendo felici sia chi sostiene che si tratta di un malanno illusorio e comunque dalla temperatura molto più bassa di quella percepita, sia chi ritiene, invece, che sia un’affezione da non sottovalutare per la salute della nostra lingua.

  4. Monmartre:

    Mi trovo pienamente concorde con Massimo: nel parlato di tutti i giorni si sente “compagno”.

  5. Licia:

    @Anna Laura, ho notato, ed è la conferma che è una locuzione che crea confusione. Peggio ancora: molti associano stepchild adoption alla maternità surrogata (il cosiddetto “utero in affitto”) che invece non c’entra nulla. I comunicatori pubblici dovrebbero fare più attenzione all’uso di anglicismi che probabilmente ritengono del tutto trasparenti (maledizione della conoscenza!) ma che invece non lo sono e possono creare incomprensioni e fraintendimenti.

    @Massimo, in breve: va trovata una parola che stia a unione civile come coniuge sta a matrimonio e per questo mi pare più adatto partner: anche grazie alla morfologia non italiana, è più neutro di compagno, appartiene a un registro meno informale e non ha potenziali connotazioni politiche come invece compagno/a.

  6. Licia:

    @Monmartre: il punto che sto cercando di fare però è diverso. Le parole, ma soprattutto i termini (non è però questo il caso perché stiamo discutendo di lessico comune) non andrebbero mai considerate individualmente ma sempre all’interno del sistema concettuale a cui appartengono, assieme alle altre parole che lo compongono e tenendo conto dei registri d’uso. In sintesi:

    [informale] compagno/a sta a convivenza come marito/moglie sta a matrimonio
    [neutro, più formale] partner sta a unione civile come coniuge sta a matrimonio

  7. Massimo S.:

    @Licia

    Se il problema è quello di individuare per l’istituenda unione civile un termine neutro da utilizzarsi nell’italiano formale che designi i componenti dell’unione medesima e che corrisponda all’italiano formale di coniuge usato per indicare i componenti dell’unione matrimoniale, occorre tener presente che lo stesso termine ‘partner’ seppur ricorre talvolta, nelle fonti formali, per tale contesto, è però affiancato ‘formalmente’ da altri termini quali “convivente/i more uxorio” o semplicemente “convivente/i”, o anche “compagno/a” che sono diffusissimi nel linguaggio ufficiale, non certo colloquiale, della burocrazia e delle sentenze.
    E proprio l’utilizzo del termine convivente o compagno/a nell’italiano burocratico e della giurisprudenza degli ultimi decenni legato al progressivo allargamento di diritti e provvidenze nei loro confronti e all’evoluzione dei costumi ha fatto sì che oggi ‘convivente’, come “compagno/a” possano ben essere considerati termini neutri appartenenti sia al registro colloquiale che a quello formale, che hanno perso ogni connotazione negativa.

    Cfr., ad esempio, il testo della sentenza di Cassazione n. 7214 del 21 marzo 2013, certamente un testo appartenente al registro formale e non colloquiale, in cui nell’ambito di una disputa afferente a una unione di fatto il termine “partner” ricorre cinque volte; ma ci sono anche i termini “compagno” e “compagna”, che ricorrono rispettivamente tre e due volte; e poi c’è il termine “convivente” (accompagnato o no da “more uxorio”) che ricorre ben ventitré volte, al singolare, e tre volte al plurale…

    http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20130322/snciv@s20@a2013@n07214@tS.clean.pdf

    Inoltre mi sembra che la stessa ‘neutralità’ o ‘nobiltà’ formale di partner sia incrinata dal fatto che il termine viene utilizzato nell’italiano formale anche per indicare le parti di un rapporto puramente sessuale od occasionale.

    Certo, disambigua il contesto, ma allora anche quando usiamo o leggiamo il termine compagno/a nel contesto di cui qui si tratta non ci viene certo da pensare per forza ai Soviet o a Lenin e a Stalin o a Togliatti oppure a Bersani, né dobbiamo sentire per forza l’eco di Bandiera rossa.

    Penso, quindi, come punto di partenza da discutere e approfondire, che compagno/compagna possano rappresentare valide alternative a partner pure nel registro cd. neutro o formale, e che dunque possa ragionevolmente sostenersi che nel registro cd. formale anche compagno/compagna, o convivente, come partner sta a unione civile come coniuge sta a matrimonio.

  8. John Dunn:

    Parlo inglese già da (quasi) 67 anni e non ho mai sentito la locuzione ‘stepchild adoption’, anche perché in inglese si dovrebbe dire ‘the adoption of a stepchild’. Quindi sono convinto che si tratta di un pseudoanglicismo. Ma da dove viene? A mio avviso qui la questione non è tanto lessicale, quanto grammaticale: questa locuzione probabilmente viene dal desiderio di creare nuove locuzioni del tipo ‘sostantivo + sostantivo’, e come si sa, è molto più comodo utilizzare per questo scopo elementi provenienti dal inglese, cf. Family day, Juventus stadium, Kids Swap Party (non è quello che forse immaginate).

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