Anacronismi lessicali

Il linguista americano Ben Zimmer usa il termine anachronym per descrivere parole o espressioni che identificano un concetto che si è evoluto e non è più coerente con l’etimo o con la metafora di origine. Due esempi comuni a inglese e italiano sono riagganciare (il telefono) e selfie, parola recentissima ma che ha già subito uno slittamento di significato e non è più esclusivamente una foto di se stessi (self) scattata da sé.

striscia di Chris Hallbeck – maximumble.com

Potete trovare altri esempi per l’inglese in 15 common expressions younger generations won’t understand (ad es. roll, “arrotolare”, per alzare e abbassare i finestrini delle auto, broken record, il disco incantato/rotto metafora per chi ripete la stessa cosa, il verbo tape per registrare audio o video anche se non si usa alcun nastro).

Anachronym è una parola macedonia formata da anachronism +onym ma non credo che in italiano un eventuale calco anacronimo sarebbe altrettanto efficace: come già evidenziato in  Occasionalismi: nymwars, in inglese il suffisso –(o)nym  è molto produttivo, anche nel lessico comune, mentre in italiano l’uso è ristretto a termini linguistici.

Anacronismi lessicali (e terminologici)

vignetta Bill Whitehead: due antichi greci con smartphone, uno dei due commenta “Not AGAIN! It’s another selfie from Narcissus!” In italiano forse potrebbe funzionare una risemantizzazione di anacronismo lessicale, locuzione già usata per identificare parole o espressioni che da un punto di vista diacronico non sono coerenti con il contesto d’uso, ad es. le parole adultescenza o tamarro in un romanzo ambientato negli anni ‘60 del secolo scorso.

Questo tipo di anacronismo lessicale è un potenziale problema per scrittori e traduttori letterari, risolvibile però con vari strumenti, come già accennato in Risorse lessicali per tradurre dall’inglese.

Nella “nuova” accezione (anachronym), gli anacronismi lessicali si fanno notare raramente: gli slittamenti semantici sono un normale processo linguistico a cui siamo abituati (e ci ricordano che le parole sono convenzioni, cfr. triangolo semiotico).

Non riguardano solo il lessico comune (parole) ma anche la terminologia, soprattutto in ambiti dove i concetti si evolvono molto rapidamente, come l’informatica. Qualche esempio: “dischi” a stato solido, la metafora del tethering, il comando Salva con nome (con un’icona anacronistica).
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Vedi anche: Retronimi (e televisione), sui neologismi sintattici come televisione in bianco e nero resi necessari da concetti che si sono trasformati o specializzati.

Vignette: Chris Hallbeck e Bill Whitehead

6 commenti su “Anacronismi lessicali”

  1. Massimo S.:

    Bel tema…
    Io credo che un romanzo degli anni ’30 vada tradotto il più possibile col lessico italiano e con i modi di dire degli anni ’30, per dargli la giusta collocazione temporale…
    E così, ad esempio, tradurre ghiacciaia elettrica, piuttosto che frigorifero il termine inglese in ipotesi rimasto inalterato ad indicare l’apparecchio refrigeratore di vivande, che comparisse in un romanzo degli anni trenta o quaranta o primi anni cinquanta.

  2. Massimo S.:

    Un altro esempio.

    Francesco Durante ha tradotto alla fine degli anni Novanta alcuni racconti di John Fante, tra cui il bellissimo, per me, La strada per l’inferno (titolo originale The road to hell) incluso nella raccolta Dago Reg, pubblicata prima da Marcos Y Marcos nel 1997, e poi da Einaudi nel 2006.
    In tale racconto, scritto prima della II guerra mondiale, compare ad un certo punto il termine “pirla”, che mi pare davvero fuori posto in un racconto ambientato tra ragazzi poveri italoamericani (dalle famiglie originarie dell’Italia meridionale o centrale), presumibilmente a Denver o a Los Angeles, che narrano dei loro piccoli furti e della tentazione di compierne di nuovi, istigati per così dire dal demonio, e degli sforzi di una suora loro insegnante per farli desistere con un racconto a forti tinte, che in qualche modo raggiunge l’effetto sperato.

    – I –
    Quando vai a confessarti, devi dire tutto. Chiunque nasconda anche un sol peccato finisce subito nei guai, poiché puoi far fesso il prete, ma non è facile far fesso il Padreterno. In effetti non si può. Ogni venerdì al St. Catherine ci sono le istruzioni sul confessionale. La nostra insegnante è suor Maria Giuseppa, ed è proprio lei quella che ci ha parlato dell’onniscienza di Dio, cioè che Lui sa ogni cosa. Ce l’ha provato con la storia del ragazzo che aveva cercato di nascondere un peccato in confessionale. Suor Maria Giuseppa ci ha detto che quel tizio era uno abbastanza a posto. Studiava molto e pigliava buoni voti. Obbediva a suo padre e sua madre, e recitava le preghiere del mattino e quelle della sera. Non diceva le parolacce, e tutti i suoi pensieri erano puri. Ogni sabato si confessava, e ogni domenica mattina faceva la santa comunione. Insomma non c’era proprio niente da dire sul comportamento di quel ragazzo.
    Però è andata come sempre. Non appena uno si comporta bene, ecco che ti arriva il diavolo, cioè la Tentazione. Anche un bravo ragazzo come quello ne viene toccato. Suor Maria Giuseppa ci ha detto che un giorno quel ragazzo stava camminando in centro, pensando agli affari suoi, quando passa di fronte a una vetrina piena di palle e guantoni da baseball. Lui era povero. Un guanto da ricevitore ce l’aveva, ma non era un granché.
    Insomma, ne aveva sempre desiderato uno nuovo. Nella vetrina ne vide uno che era un gioiellino, e subito gliene venne una gran voglia. Se hai molta voglia di avere una cosa, specialmente qualcosa che non puoi avere, quella è una Tentazione. Lui quel guanto lo voleva, però sapeva che non poteva comprarselo, e insomma avrebbe dovuto scordarselo. Ma no. Era lì, davanti alla vetrina e, sicuro come la morte, ecco che arriva il diavolo. Posso capire come si doveva sentire quel ragazzo, perché io sono sempre stato ad ascoltarlo, il diavolo, e si direbbe che stia sempre davanti a qualche vetrina di negozio in attesa che passi qualcuno, specialmente uno che vuole un nuovo guantone, o una pistola, o insomma qualcos’altro che costi un sacco di soldi.
    Il diavolo disse al ragazzo: “Ehi tu, non fare il PIRLA. Vuoi quel guantone, e lui costa cinque dollari. Bene. Dimmi un po’ dov’è che li trovi cinque dollari! Quella è ROBINA che tuo padre mica ce l’ha . E allora usa la testa. Vai al negozio e ti freghi il guantone. Certo che è peccato, e allora ? Finora sei stato buono buono, e che cosa ci hai guadagnato? Niente! Fatti furbo!”.
    (…)

    Mi chiedo: non era meglio tradurre l’originale americano, che peraltro ignoro, invece che con ‘pirla’, con ‘sciocco’ o ‘fesso’?
    Anche il termine ‘robina’, poi, mi suscita qualche perplessità…
    O sono soltanto le fisime di un meridionale che ha poca dimestichezza con certi settentrionalismi che pure sono entrati nell’italiano comune ?

    Ma però 😉 questi settentrionalismi mi sembrano, infine, oggettivamente fuori posto nell’ambientazione del racconto.

  3. Massimo S.:

    Ancora un altro esempio, soltanto ipotetico, a futura memoria, sul tema degli anacronismi che, ahimè, non ha suscitato molto interesse…

    Su Sette n. 27, supplemento del Corriere della Sera in edicola venerdì 3 luglio 2015, a pagina 87, il poeta e traduttore Maurizio Cucchi, curatore della rubrica Usi & abusi, se la prende con l’abuso di O.K. nella parlata quotidiana, pronunciato ochèi al nord e occhèi al sud, al posto di “Va bene”, di “sì” e così via; e dopo aver ricordato la prima apparizione ufficiale della locuzione sul Boston Morning Post del 1839, e la diffusione in Italia a partire dal secondo dopoguerra, oltre che l’incerta origine dell’espressione, paventa con sgomento, di questo passo, un futuro non lontano in cui “un traduttore desideroso di attualizzare”, potrebbe tradurre con l’aborrita espressione inglese il seguente passo di Anna Karenina , cioè, come racconta Cucchi “ quando arriva il fattorino di Karenin e consegna una busta con l’incarico di portare una risposta”: “Va bene -rispose Anna e, appena l’uomo fu uscito, con le dita tremanti strappò la busta”.
    Il “solerte” traduttore, quindi, potrebbe far scrivere a Tolstoj (e far dire ad Anna Karenina), secondo l’apocalittica previsione di Cucchi “o.k. – rispose Anna”.

    Da qui l’invocazione dello scrittore che dà il titolo al pezzo: “Salviamo Anna da o.k. improbabile” che è poi un invito a resistere, nella pratica quotidiana, all’uso indiscriminato di o.k. e a stare attenti agli anacronismi.

  4. Licia:

    @Massimo. grazie per gli esempi. Non ho letto il racconto di Fante, quindi non saprei a cosa corrisponda pirla nell’originale, Invece, a proposito di Anna Karenina e OK (la parola globalmente più riconoscibile: dettagli in uno dei miei primi post, OK? OK!), davvero curioso che come paradosso sia stato scelto un anglicismo in un esempio di traduzione dal russo!

  5. Massimo S.:

    @Licia

    Se anche ok è ormai oggi espressione diffusissima e riconoscibile in tutte le lingue del mondo, russo incluso, al punto che Microsoft ha scelto di lasciare invariato ok nelle sue applicazioni per il mercato russo, è verosimile (non ho notizie in proposito, e per pigrizia non le ho cercate su internet) che anche nella lingua russa la fortuna di ok risalga alla metà del secolo scorso… o ancora più tardi.
    Poco probabile, quindi, che Leone Tolstoj che scrive Anna Karenina nel corso degli anni settanta dell’Ottocento metta proprio l’anglicismo ok in bocca all’ottocentesca e altolocata signora russa Anna Karenina, invece delle corrispondenti locuzioni russe.
    Ma così potrebbe arrivare a fare, in un futuro non lontano, secondo il ragionamento non proprio lineare di Cucchi, il traduttore italiano poco accorto e così frastornato dall’uso imperante di ok in italiano da aver smarrito la memoria delle parole o espressioni italiane corrispondenti al punto da trovare naturale utilizzare ok per rendere le analoghe locuzioni russe impiegate da Tolstoj-Karenina, per esprimere “sì”, “va bene” e simili , invece di utilizzare le espressioni italiane più plausibili per signore aristocratiche russe di II metà di Ottocento avvezze al francese ma non certo all’inglese.

    Il problema, insomma, non è tanto l’uso del forestierismo, quanto la perdita di memoria di espressioni italiane corrispondenti, indotto dall’abuso del forestierismo che determina un impoverimento del linguaggio (non abbiamo una parola in più, quella straniera per dire una certa cosa, ma parole in meno su cui, perdutane la memoria non potremo esercitare alcuna scelta di gusto o consapevole) e può portare al paradosso di far parlare una signora ottocentesca, in un contesto alquanto drammatico, con espressioni appunto anacronistiche (in questo caso troppo “moderne”) e improbabili.
    Insomma, mi piacerebbe ricordare a quanti usano oggi ok (un uso attivo e non passivo, proprio anche del linguaggio familiare o informale) che quanto significato in italiano da ok, può rendersi anche con parole o locuzioni italiane, di cui tenersi vivo il ricordo e l’uso, ciascuno poi libero, ci mancherebbe altro, di scegliere l’una o l’altra parola per i propri discorsi.

  6. Licia:

    @Massimo, /okkˈɛi/ è attestato in italiano almeno dal 1931 (fonte Devoto-Oli), ormai è forestierismo solo da un punto di vista etimologico e ortografico, ma nella pronuncia è una parola che potrebbe essere stata inventata in italiano: occhei.

    Non ho letto l’articolo che citi, ma immagino che l’esempio di OK sia stato usato non tanto come problema di forestierismo ma a proposito di variazione linguistica (cfr. Enciclopedia dell’Italiano) e della capacità dei traduttori di riconoscerne le manifestazioni e di operare le scelte lessicali, sintattiche e stilistiche adeguate. Solo un traduttore amatoriale e inesperto potrebbe far dire OK ad Anna Karenina, un vero professionista non farebbe mai questo errore.

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