diesis ≠ cancelletto

La puntata di oggi di La lingua batte, la bella trasmissione di Radio 3 sulla lingua italiana, era intitolata Morbus anglicus? e trattava di anglicismi e di come e quanto sia possibile sostituirli con parole italiane. La discussione è iniziata con hashtag e gli esempi in francese e italiano che anch’io avevo riportato in  #TrovaUnaParolaItalianaPerHashtag.

simboli diesis e cancellettoLa scelta francese, mot-dièse, è stata spiegata come “parola diesis, visto che il simbolo in questione ha appunto la forma di un diesis, o di un cancelletto”, ma non è stato rilevato l’errore dei terminologi “governativi” francesi, che hanno fatto confusione tra due simboli diversi. Come dicevo in # nomi inglesi del cancelletto #, il simbolo musicaleha le barrette lunghe perpendicolari e quelle corte inclinate, a differenza del simbolo informatico # che ha invece le barrette lunghe inclinate e quelle corte parallele alla linea di base. 

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L’intera puntata di La lingua batte si può ascoltare in podcast ed è molto stimolante, con parecchi spunti su argomenti che mi interessano molto e a cui ho dedicato vari post, a cominciare da L’invasione degli anglicismi.

7 commenti su “diesis ≠ cancelletto”

  1. Silvia Pareschi:

    Grazie della segnalazione, Licia, avevo ascoltato la puntata sui traduttori ma non mi ero resa conto che fosse una trasmissione così ricca. Ora la inserisco nell’elenco dei blog preferiti (stavo per scrivere blogroll…).

  2. Licia:

    @Silvia, buona idea ricordare la puntata sui traduttori, che aveva parecchi spunti interessanti e si può ancora scaricare il podcast. Anch’io continuerò a seguire la trasmissione: trovo molto riuscito il formato e l’unico segmento che non mi convince è quello sull’insegnamento dell’italiano a stranieri.

    @Carla, grazie, immaginavo che ci fossero state delle discussioni ma purtroppo il mio francese è praticamente inesistente :-(.

  3. .mau.:

    sicuramente il diesis ha il suo bel simbolo Unicode (U+266F). Però all’atto pratico se devo scrivere fa diesis scrivo fa# e non fa♯, esattamente come se devo scrivere mi bemolle scrivo mib e non mi♭… o se preferite quando apostrofo qualcosa uso il carattere ‘ e non il ’.
    Insomma mi pare un peccato veniale.

  4. Licia:

    @.mau. sarei d’accordo se si trattasse di preferenze di singoli utenti o di contesti come quello che hai citato, ma qui abbiamo a che fare con terminologia ufficiale, imposta dall’alto da apposita commissione che ha deciso che il termine che nel linguaggio comune è associato quasi esclusivamente a Twitter debba fare riferimento alla musica (forse per via dei cinguettii?!?).

    Si può presumere che chiunque usi abitualmente una tastiera di computer sappia cos’è un cancelletto, quindi nella terminologia ufficiale ha più senso mantenere il riferimento al simbolo che non solo è più corretto ma è anche più familiare e diffuso (poi magari Oltralpe tutti sanno leggere la musica e pensano “diesis” anche quando vedono # sullo schermo di un computer ma, come dicevo sopra, le mie conoscenze di francese e di francesi sono limitate).

  5. spiritoaspro:

    Mi pare che nel ragionamento esposto nel podcast dal professore di storia della lingua italiana ci sia una forte componente ideologica.

    Il fenomeno ‘anglicismo’ è descritto come un forestierismo indegno rispetto ad altri, tipo il latino e il greco, quasi impoverisca la lingua. Eppure anche i forestierismi provenienti da lingua più ‘autorevoli’ sono arrivate nella lingua italiana per vie traverse: sono lingue utilizzate per i neologismi in ambito scientifico per scelte storico/comunicative, non perché siano lingue ontologicamente superiori.

    Trovo irrealistica e anacronistica l’idea che si possa controllare una lingua invece di soffermarsi solamente a studiarla, compito di uno storico. Ai giorni nostri quanto suona ridicolo leggere nei libri di storia dell’obbligo di traduzione fascista, persino del gioco del Monopoly (Monòpoli, pardon)?

    Trovo ridicolo anche il disprezzare i corsi in lingua inglese, ma siamo in una partita di calcio, italiano contro inglese?. A patto che non sia solo una questione di marketing, quei corsi dovrebbero essere rivolti a persone che auspicano uno sbocco lavorativo internazionale: come biasimarli visto l’accentuato fenomeno di fuga dei cervelli? Ma poi fino a che punto un madrelingua italiano può astenersi da trovare una traduzione nella propria lingua di concetti appartenenti alla lingua non di origine? Per questo ritengo che le ragioni esposte non convincano assolutamente.

    Suona ridicola anche l’affermazione che l’inglese sia una lingua povera. Intendiamoci, si può dar ragione a Leopardi quando parla di una lingua franca come lingua povera, però a quel povero un letterato associa connotazioni negative perché dimentica il ruolo principale di una lingua, il dover comunicare. Una lingua franca è il minimo comune denominatore, semplice e priva di ambiguità, e l’inglese ‘internazionale’ si è dimostrato all’altezza di questo compito, ben più di altre lingue, e non mi pare affatto una caratteristica negativa. L’inglese ‘internazionale’ è una lingua mcd, come probabilmente lo erano prima lo spagnolo o il francese, al contrario del fervido inglese madrelingua che ha dimostrato di rispondere repentinamente a cambiamenti sociali, passeggeri o meno, non riscontrabili in altre lingue: ad esempio tutti i neologismi riguardanti la comunità gay, integrati anche in altre lingue.

    L’intero podcast sembrava una demistificazione ingiusta dell’inglese. Siamo tutti consci che fino a che i forestierismi (mai più termine idoneo per i conservatori della lingua) saranno integrati nella lingua di arrivo, essa sarà viva e vegeta. A mio avviso ci sono altri tipi di influenze inglese – italiano che mettono a repentaglio l’unicità della lingua, meno visibili e più profonde, di questo bisognerebbe preoccuparsene maggiormente.

  6. Licia:

    @spitiroaspro, grazie del contributo.

    Ho espresso il mio punto di vista sull’argomento in L’invasione degli anglicismi: per me è importante distinguere innanzitutto tra lessico comune e lessico specialistico.

    Ho apprezzato l’intervento di Riccardo Gualdo perché mi è sembrato che cercasse di mediare tra i due atteggiamenti più diffusi, l’adozione indiscriminata dei prestiti dall’inglese e il purismo spinto che vorrebbe addirittura sostituire parole come mouse e computer. Dovrei riascoltare il podcast, ma mi sembra che venisse messo in evidenza come grazie a Internet e altre tecnologie, la diffusione e il radicamento delle parole sono tali che la lingua cambia a una rapidità mai vista prima e quindi le parole inglesi sono molto più visibili rispetto al passato e ad altre lingue, per cui è difficile fare paragoni. Sulla possibilità di sostituire gli anglicismi, invece, gli esempi come ora felice per happy hour non mi hanno convinta, anche perché poi è stato giustamente sottolineato che è necessario tenere conto di alcuni parametri come datazione, plausibilità e diffusione (sull’aspetto diacronico, cfr. il cloud e la cloud e Radiografia delle parole e relativi link). A proposito delle autorità per il controllo della lingua che tanti puristi invocano, sul modello francese, Gualdo ha suggerito, se ben ricordo, una “pianificazione linguistica leggera” che osservi il comportamento delle parole e in base a questo dia indicazioni da mettere in atto in particolare nella comunicazione pubblica (immagino da intendersi come istituzionale).

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