Anglicismi: un piccolo esperimento

L’invasione degli anglicismi ha suscitato molto interesse e parecchi commenti, tra cui il suggerimento per un piccolo esperimento per capire se l’itanglese stia davvero sostituendo il lessico italiano o se invece si tratti di una percezione distorta. Consiste nel fare attenzione alle conversazioni in normali situazioni di vita quotidiana, ad es. in famiglia o tra amici, e prendere nota dei forestierismi superflui usati dai parlanti.

Ritengo che nell’osservazione vadano considerati alcuni aspetti diacronici e vada differenziato il lessico comune dal lessico specialistico (dettagli qui) e da forme di gergo (linguaggio comune a una determinata categoria di persone ma non usato al di fuori dal gruppo):

grafico: adozione degli anglicismi

Per l’esperimento prenderei in esame solo le parole posizionabili nel quadrante in alto a sinistra del grafico. In particolare:

  • Analizzerei solo le situazioni di vita quotidiana perché di solito sono caratterizzate dall’uso di lessico comune e, a differenza di quelle lavorative, le produzioni verbali sono più spontanee e meno influenzate da linguaggi speciali (ad es. informatica, economia, marketing) e da forme di gergo.
  • Scarterei tutti i prestiti che fanno parte del lessico italiano da vari anni e sono presenti in tutti i dizionari, come ad es. mouse (1978), check-in (prima del 1974), sport (1829) ecc.
  • Escluderei tutte le parole, come smartphone, che sono nate in un ambito specialistico e solo in seguito sono entrate nel lessico comune (frecce nere nel grafico).
  • Mi concentrerei sugli anglicismi recenti, arrivati nel lessico comune direttamente dall’inglese (freccia rossa nel grafico) e per i quali esiste anche un’alternativa italiana, quindi solamente prestiti superflui, come gli esempi in Una casa shabby al punto giusto.

La lingua è in continua evoluzione e alcune parole sono sicuramente difficili da posizionare, però penso che anche un esperimento rudimentale e del tutto empirico come questo potrebbe dare qualche indicazione concreta sulla presenza effettiva degli anglicismi nel lessico comune.

Il campione che ho raccolto finora non è affatto rappresentativo (ad es. non comprende tutte le fasce d’età e altri aspetti diastratici) ma mi sta confermando che i prestiti superflui usati attivamente dai parlanti sono decisamente meno numerosi di quelli a cui siamo esposti passivamente ogni giorno attraverso i media e quindi che le preoccupazioni sulla progressiva scomparsa del lessico italiano sono davvero premature.


Aggiornamento aprile 2018 – In Chi dice “nel mio living”? ho illustrato la discrepanza tra esposizione passiva all’anglicismo living (ovunque nelle riviste di arredamento e nelle pubblicità) e uso attivo inesistente da parte dei parlanti che invece continuano a dire soggiorno, salotto, sala, salone.

Vedi anche:
♦  Anglicismi, che passione!? (alcune distinzioni importanti)
♦  Davvero fra 80 anni non si parlerà più italiano? (proposte di legge a tutela della lingua)


15 commenti su “Anglicismi: un piccolo esperimento”

  1. Rose:

    Io trovo patetica la cattiva pronuncia delle parole inglesi, entrate ormai nell’uso comune. Il cattivo esempio comincia dai giornalisti televisivi; ce ne fosse uno con una pronuncia decente.
    Così, la mountain bike è diventata ‘montan baik’; in farmacia devi dire letteralmente ‘travel gum’ com’è scritto, altrimenti non ti capiscono. Idem per i ‘care free salva slip’, un fritto misto di parole lette pare pare e altre di invenzione.
    Insomma, forse l’italiano non va scomparendo, ma mi preoccupa questo pseudo-inglese che si è diffuso.

    Mi sa che sono uscita dal seminato. Scusami, Licia e buon fine-settimana. 😉

  2. Licia:

    @Rose, grazie, buon fine settimana anche a te!

    È normale che i prestiti in italiano subiscano un processo di adattamento fonologico ma anch’io sono molto perplessa dalla pronuncia di parole inglesi palesemente sbagliate che si sentono in canali “ufficiali”, come in radio o TV, perché non sarebbe difficile verificare la pronuncia originale e poi adattarla a quella italiana (durante alcune elezioni avevo sentito un famoso giornalista parlare di “ecsit pul”, confondendo poll e pool). In particolare, mi infastidisce la pronuncia errata di performance e management (e stage come se fosse una parola inglese anziché francese), tanto che ne avevo parlato proprio in uno dei miei primi post (marzo 2008!), Parla come mangi 1 (e 2).

  3. Marco:

    E che dire allora di una marca famosa di tonno con vaschetta ISY PIL (scritto proprio così…)? Certo, almeno gli italiani non sbaglieranno la pronuncia, però trovo che sia una cosa raccapricciante.

  4. Licia:

    @Marco, questa mi mancava! Ma i nomi così palesemente “farlocchi” non saranno controproducenti? A me istintivamente fanno sospettare sulla qualità del prodotto, simile all’effetto che mi fanno farmaci con nomi come Contramal e Viamal (analgesici, ovviamente!).

  5. Flavio Pas:

    Interessante, appena avrò modo di parlare con la famiglia metterò in pratica l’esperimento.

    Recentemente ho visto su TED questo filmato ( http://www.ted.com/talks/mark_pagel_how_language_transformed_humanity.html )
    di Mark Pagel che conclude affermando che le lingue andranno pian piano in decadenza per far spazio ad una lingua globale, l’inglese. Questo perché lo ritiene inevitabile al fine dell’evoluzione umana (se così si può dire), al pari del sistema metrico impostosi sugli altri sistemi o al pari del sistema “ore, minuti, secondi”.
    Al di là di questa conclusione consiglio il video e seppur ottimista nel breve periodo rimango pessimista sul futuro.

    Sperando che l’esperimento mi sorprenda positivamente ringrazio per il blog e ti auguro buon week-end.

  6. Nautilus:

    Sono rimasto almeno trenta minuti a pensare a una mia conversazione tipo con: (1) amici davanti a una birra (di solito più di una), (2) moglie (solo una, spende già abbastanza), (3) familiari e parenti, (4) conoscenti non colleghi. Non mi è venuto in mente un solo anglicismo recente non legato a contesti tecnici che anima i nostri discorsi. Per contro mi basterebbe pensare all’ambito lavorativo per stilarti un lunghissimo elenco (noioso e vomitevole). Questa cosa mi ha dato da pensare: l’uso ridottissimo di anglicismi in contesti normali non lavorativi e un loro abuso in situazioni complementari alle precedenti mi spinge a pensare che si dovrebbe cercare una spiegazione a metà tra l’ambito sociologico (ma mi verrebbe da dire “etologico”) e quello psicologico (ma mi verrebbe da dire psichiatrico). Dunque, come Rose, esco anch’io brevemente dal seminato. E cito una parola che qui da noi si pronuncia in maniera insopportabile: bulin(g) (bowling). Gli stranieri lo notano praticamente subito. Aggiungo poi, passando all’ambito lavorativo, altre due cosette: “ti ho fissato un calendar” (al posto di appointment) e “ti faccio il print screen della pagina” (al posto di screen shot). Bene, ho finito. Desolato per non aver potuto dare un contributo all’esperimento.

  7. linus:

    Io mi chiedo come mai sia diventato tanto obsoleto il pettegolezzo, per lasciare spazio al “gossip” o ai “rumors”. Inoltre quale contorto motivo può portare ad adottare una parola neppure tanto easy (gh) come “misunderstanding”, quando abbiamo tante parole non equivocabili per per definire un malinteso?

  8. Licia:

    @Flavio, grazie, davvero molto interessante. Non risciremo a vedere come andrà a finire però, chissà, magari il futuro è bilingue, con la maggior parte delle persone che parla la propria lingua e l’inglese come lingua di comunicazione? A questo proposito ho ripensato a un libro che proponeva la teoria secondo la quale invece in futuro l’inglese sarebbe destinato a scomparire, proprio perché sta diventando sempre più una lingua franca (globish) e non più madrelingua. Mi ero riproposta di leggerlo ma poi mi è mancato il tempo, ma ne avevo accennato in L’inglese scomparirà?

    @Nautilus, quando ero esposta anch’io quotidianamente a dosi massicce di itanglese aziendale, ero arrivata alla conclusione che l’uso era inversamente proporzionale all’effettiva padronanza dell’inglese (e in certi casi anche dell’italiano). Mi torna in mente una frase di Tullio De Mauro che ho già citato in un commento qualche mese fa: “l’abuso di tecnicismi e parole poco note (esotismi o no) appartiene alle fasce culturalmente basse dei locutori, a quelli che a Napoli chiamiamo mezze calzette”.

    A proposito, mi è piaciuta la tua idea di affrontare la questione da una prospettiva numerica in Il peso degli anglicismi.

    @linus, davvero, me lo chiedo anch’io ogni volta che leggo titoli come USA: gli ebook superano gli hardcover (visto oggi) o sfoglio riviste come Casa Facile (quella delle case shabby). Mi viene da citare di nuovo De Mauro… 😉

  9. remo:

    “l’abuso di tecnicismi e parole poco note (esotismi o no) appartiene alle fasce culturalmente basse dei locutori” non sono d’accordo, a meno che non si voglia dare della mezza calzetta pure a Mario Monti che parla sempre di spending review – nonostante non sia stato in grado di fare neanche un italianissimo “taglio della spesa”.

    Personalmente ritengo che le mezze calzette siano i linguisti italiani che tuonano contro il Politecnico di Milano – il quale ha deciso di tenere le lauree specialistiche soltanto in inglese – non rendendosi conto che tale decisione è soltanto la conseguenza della totale assenza di una politica di tutela dell’idioma nazionale, sentito, proprio a livello istituzione, più come un peso di cui liberarsi che non un patrimonio culturale. Ma d’altra parte, considerare la lingua patrimonio culturale, significherebbe anche doversi attivare al fine di preservarla, anche dagli anglicismi (cosa che nessuno pavidamente vuol fare, per evitare i soliti beceri richiami al periodo fascista).

  10. a George:

    “Quel fascino CAMAY
    che far girar la testa”,
    brano da 1960 (pubblicità televisiva) con la pronuncia camài.

  11. Silvia Pareschi:

    Grazie Licia, il tuo è un suggerimento interessante e d’ora in poi ci farò più caso. Pensandoci adesso, rapidamente, e leggendo i commenti qui sopra, mi viene senz’altro da concordare sul fatto che i prestiti superflui usati attivamente, al di fuori di contesti professionali specifici, sono molto meno numerosi di quelli a cui siamo esposti passivamente. Però gossip ha preso piede, su questo non c’è dubbio.

  12. Licia:

    @Silvia, che sia anche una questione culturale, ossia la necessità di avere una parola per descrivere tutti questi dettagli irrilevanti su personaggi famosi, pseudotali o aspiranti tali che fino a non molti anni fa interessavano solo a chi leggeva roba tipo Eva 2000, mentre ora hanno uno spazio enorme anche sui media cosiddetti “di qualità”?

    Interessante tra l’altro che in italiano gossip faccia spesso riferimento al singolo pettegolezzo (un gossip) mentre in inglese, con questo significato specifico, è uncountable (si dice ad es. a piece of gossip).

    A me comunque piace tantissimo la parola spetteguless ;-).


    @remo, comunicazione di servizio: alcuni commenti sono stati approvati con un certo ritardo perché erano finiti nello spam causa indirizzo email fittizio.

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