History – Cronologia

Dilbert - Browser history

Dopo tanti anni, ricordo ancora le discussioni durante la localizzazione di Internet Explorer, quando ero Senior Language Specialist di Microsoft e dovevamo decidere il termine italiano per history (l’elenco delle pagine visualizzate con il browser in un periodo specifico).

I responsabili del marketing inizialmente spingevano per un calco modellato sul termine inglese, come historique (francese), historial (spagnolo) e histórico (portoghese)*.

Il team linguistico di cui facevo parte pensava invece che in italiano storia e storico fossero fuorvianti perché i significati primari non erano assimilabili a quello richiamato da history in inglese (“a record of something that has been done by someone in the past”); neanche cronistoria ci pareva adatto perché avrebbe fatto pensare a una forma di narrazione.

In particolare, avevamo verificato che nessuna di queste opzioni sarebbe stata efficace in contesto, soprattutto in combinazione con altri elementi, ad es. nei termini browser history e search history (la storia del browser? lo storico della ricerca? Mah!).

Avevamo quindi proposto cronologia perché, pur discostandosi dal termine inglese, il significato “ordine secondo il quale si succedono determinati fatti” era facilmente associabile alla visualizzazione predefinita che nel browser è proprio per data.

And the rest is history: in breve tempo cronologia aveva acquisito un significato informatico specifico, diventando il termine di riferimento non solo per i prodotti Microsoft ma anche per le versioni italiane degli altri browser (Chrome, Firefox, Safari, Opera).

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  All’epoca si localizzava nelle principali lingue europee e solo in seguito ne erano state aggiunte altre. Tra queste, ho verificato le scelte di due lingue che non parlo ma la cui terminologia è spesso trasparente e ho visto che history è cronologia in romancio e kronoloġija in maltese, quindi sono state preferite soluzioni simili a quella italiana.


Aggiornamento 19 maggio 2012  – Nei commenti qui sotto, una nota sull’assenza (o quasi) di bookmark (segnalibro) in Internet Explorer e sulla localizzazione Favorites – Preferiti, che mi hanno dato lo spunto per un nuovo post, Scelte terminologiche: segnalibri e preferiti.

15 commenti su “History – Cronologia”

  1. Francesco:

    E allora complimenti, cronologia mi è sempre piaciuto e di fatto è ormai associato a questo contesto. Approvo! 😉

  2. Licia:

    Grazie dei commenti 🙂

    Vorrei però sottolineare che ero anche se avevo contribuito in modo sostanziale alla scelta, ero parte di un team e le decisioni per i termini ad “alta visibilità” non sono mai prese singolarmente. Di history posso dire che il brainstorming era stato intenso ma alla fine eravamo tutti soddisfatti della decisione presa.

  3. Galliolus:

    Mitico!

    Adesso però mi vengono un sacco di curiosità:

    1. perché tradurre “save” con “salva”? Io avrei detto “registra”, o “conserva”, “metti da parte”, o simili.

    2. perché “bookmarks” diventa “preferiti”, anziché “segnalibri”?

  4. Licia:

    @Galliolus, alla prima domanda non so rispondere (non sono così vecchia da avere avuto un ruolo in questa scelta!! 😉 ). Potrei però dire che inizialmente la localizzazione era un’attività abbastanza amatoriale e forse non si ragionava molto sulle diverse accezioni e soprattutto sulle diverse connotazioni delle parole nella lingua di partenza e in quella di arrivo, tanto che non sono rari gli esempi di falsi amici che con l’uso si sono trasformati in prestiti camuffati: basti pensare a library, che in inglese è la metafora di una biblioteca (una raccolta di risorse) mentre in italiano è diventata una libreria (un contenitore).

    [Nuovo post (2014): Aiuto! Salviamo la data… e con nome!]

    Per quel che riguarda Preferiti, nella versione originale inglese di Internet Explorer in effetti non ci sono i bookmark, come negli altri browser, ma i favorites, una scelta terminologica che a quei tempi di “guerre di browser” sicuramente voleva differenziare la funzionalità da quella di Netscape Navigator (e che quindi doveva essere mantenuta anche nelle altre lingue).

    Tempo fa avevo raccontato che nella versione italiana di Internet Explorer avevamo respinto l’idea di usare il calco favoriti, privilegiando invece preferiti, perché in italiano preferito ha il significato primario di “nelle scelte, anteposto ad altri”, mentre favorito può anche voler dire “chi, anche senza merito, gode il favore di qualcuno” e “probabile vincitore”, accezioni che ci sembravano del tutto fuori luogo nel contesto di un browser (per non parlare dei favoriti amanti dei sovrani!).

    Infine, una curiosità: i preferiti vengono salvati nella cartella Preferiti ma se si esportano si può vedere che tuttora (Windows 7) il nome predefinito per il file che li contiene è bookmark.htm. Ooops!

  5. remo:

    Ho l’impressione che però oggi si localizzi molto meno, basta vedere download invece di scaricamento () e link invece di collegamento.

  6. Licia:

    @remo, secondo me vanno considerati due fattori:

    1 – Come dicevo qui, una delle caratteristiche della terminologia informatica attuale è che spesso esistono termini alternativi nati più o meno spontaneamente nel mercato (a volte anche casualmente) che, grazie all’immediata disponibilità delle informazioni, vengono rapidamente recepiti anche da chi non ha conoscenze specifiche in materia (popularisation by early adopters and influencers). Spesso questa diffusione della terminologia avviene prima che i terminologi possano intervenire e quindi anche i grossi produttori di software, che potrebbero introdurre terminologia “ragionata” o perlomeno coerente con quella già esistente, si ritrovano con l’unica opzione di dover adottare termini ormai diffusi ma che non sempre rappresentano la scelta migliore, ad esempio per l’italiano una serie quasi infinita di anglicismi.

    2 – Una gestione esternalizzata della terminologia, come è il caso di molti grossi produttori di software (cfr. l’esempio di pinch), vuol però anche dire meno voce in capitolo per chi si occupa di terminologia e soprattutto uno sbilanciamento a favore dei responsabili tecnici e del marketing, che tradizionalmente preferiscono i termini inglesi ma non sempre hanno le competenze linguistiche necessarie. E il personale esterno spesso non se la sente di contrastare le decisioni dell’azienda (d’altronde, chi glielo fa fare?!?).

    (ovviamente questo è un punto di vista strettamente personale ma credo sia condiviso da molti dei miei contatti in questo settore)

  7. Remo:

    Quello che dice è vero, ma collegamento e scaricamento non mi sembrano termini così “opachi”, né nuovi, eppure tempo qualche anno e non si troveranno più nelle interfacce dei nuovi SO e dei programmi.

  8. Licia:

    @Remo, link è molto più breve di collegamento, è facile da ricordare, scrivere e pronunciare e soprattutto ha il vantaggio dell’univocità semantica.
    Per download, si usa come sostantivo mentre come verbo prevale ancora scaricare (downloadare è decisamente gergale); non saprei spiegare il perché di questa preferenza, se non ipotizzare che il sostantivo scaricamento venga percepito come una parola troppo antiquata per un contesto “moderno” come quello informatico. Ma è anche questo il bello della lingua: è in continuo movimento e magari fra qualche anno ci sarà un’inversione di tendenza, con meno anglicismi.

  9. remo:

    Anche cronologia è più lungo di history, eppure la gente se lo ricorda ugualmente: la brevità mi sembra un falso vantaggio, così come la pronuncia, visto che in rete le cose si leggono, ma non si pronunciano. C’è al massimo l’univocità, se non fosse che in contesto informatico il collegamento può solo essere quella cosa e basta: non possono essere fraintendimenti di sorta; inoltre dovremmo chiederci come fanno gli inglesi senza un termine “univoco”, mi fare che solo noi italiani siamo così ossessionati da questa univocità terminologica che non trova pari in nessun’altra lingua.
    Scaricamento, inoltre, mi piacerebbe capire come possa essere sentito come più antiquato di cronologia. Purtroppo ho l’impressione che questo “bello della lingua” si stia trasformando, nel caso dell’italiano, nel suo disfacimento – per altro in continua accelerazione -; e dubito vivamente che possa aversi un’inversione di tendenza, se per primi a dare l’esempio non siano i colossi come: MS, Apple, Google, Facebook, ecc. ma forse questi hanno più interesse che l’italiano si eroda: meno costi per la localizzazione, per quella che in fondo nel mercato globale è solo una minoranza linguistica.

  10. Licia:

    @remo: a me non sembra che qualche anglicismo possa rappresentare un pericolo di erosione della lingua. Gli anglicismi gratuiti sono ridicoli e li ho evidenziati anch’io più volte, ma non sarei così drastica (ogni generazione si lamenta della degenerazione della lingua, ma nessuna lingua è immutabile, altrimenti parleremmo tutti ancora come Dante e Petrarca!). Ora sono in vacanza ma quando torno vedrò di accennare più chiaramente ai fattori che possono influenzare le scelte terminologiche dei produttori di software (cfr. punto 1 nel commento più sopra) perché mi dispiace che si possano avere queste impressioni. Intanto pubblicherò una citazione che ho sentito ieri proprio a proposito di anglicismi 🙂

  11. remo:

    Il problema è che ogni anglicismo – ma vale per ogni parola straniera – che oggi ci sembra necessario, all’inizio sembrava gratuito: e guardi oggi quanti sono, e pensi a quanti anglicismi “gratuiti” di oggi sembreranno un domani “necessari”, scalzando via parole italiane?
    Io non sto parlando di una qualsiasi degenerazione della lingua (che comunque oggi c’è ed è innegabile nel suo appiattimento), ma della progressiva sostituzione del vocabolario originario con uno preso pari pari da un’altra lingua, fenomeno di ben maggiore discontinuità. Se poi riflettiamo sul fatto che questo fenomeno coinvolge soprattutto il vocabolario quotidiano, che è composto da non più di 6-7000 parole, è facile vedere la reale entità del fenomeno: fra qualche decennio l’italiano (o quello che sarà, visto chiamarlo italiano è sempre più difficile) non sarò altro che un dialetto dell’inglese.

  12. Licia:

    @remo, grazie per gli spunti di discussione, è sempre interessante avere punti di vista diversi dal proprio.

    Ora non ho modo di aggiungere riferimenti precisi, però posso anticipare che i maggiori linguisti italiani concordano che in realtà gli anglicismi usati nella lingua di tutti i giorni sono davvero pochi e riguardano soprattutto termini da linguaggi specializzati, come l’informatica, l’economia e la moda; a questo proposito avevo riportato alcuni dati in un post di qualche anno fa, Il bel Paese dove il weekend suona. Non c’è dubbio che i media esagerino con gli anglicismi e li infilino ovunque, a sproposito, e anch’io ne ho parlato spesso qui nel blog, ad es. in un look ancora più fashion (nei commenti avevamo già discusso di questo argomento). Se però si fa attenzione a come parlano le persone in situazioni di vita quotidiana, si può notare che la presenza di anglicismi è davvero molto ridotta (i milanesi che si occupano di marketing e pubblicità ovviamente non fanno testo!).

    L’italiano sta sicuramente cambiando ma non sta subendo un’involuzione e io non sarei così drastica sul suo destino. Avevo riassunto alcune osservazioni in proposito in Grammatica, variabilità e norme interiorizzate.

  13. remo:

    Personalmente sono d’opinione diametralmente opposta a quella presentata nel saggio della Dante: io trovo del tutto logico che in Europa si vada verso un tri-, se non bi-, -linguismo come lingue di lavoro – specialmente (e giustamente) se si tiene conto dell’irrilevanza dell’Italia -; così come non trovo che “l’italiano scientifico […] sia praticamente morto [perché] fisici, astronomi, medici, se vogliono essere letti, devono ormai scrivere …usando sempre l’inglese” ma semmai perché fisici, astronomi e medici non traducono più i termini in italiano neanche quando scrivono e si trovano in un contesto italiano.
    Così come trovo l’ottimismo dei linguisti fondato su una analisi miope e volutamente rassicurante della realtà: parole come computer, tablet, e tutti i termini specializzati hanno per la loro prospettiva d’uso un impatto e una valenza culturale maggiore rispetto a parole come pane, casa o cane (quest’ultima già parzialmente sostituita da pet), perché mentre le prime rappresentano il futuro, le seconde sono destinata a essere il futuro passato; rassicurarsi perché ancora i bambini dicono mamma e papa (chissà poi per quanto ancora?), mentre surfano sul web con lo smartphone, mi sembra solo un volersi autoilludere. Per me una lingua che rinuncia a nominare con le proprie parole nuovi concetti e nuovi oggetti, prendendole di sana pianta dalle altre, è una lingua destinata all’estinzione. E si badi che io non sono preoccupato per una generica involuzione (che comunque c’è a livello della comunicazione) della lingua, ma proprio della sua progressiva sostituzione con un’altra.
    Purtroppo in Italia la lingua italiana non è sentita come patrimonio culturale: ci si danna semmai per preservare dialetti ultralocali e biliguismi assurdi, e si trascura completamente la salvaguarda dell’idioma nazionale, difeso come vessillo in Europa, ma bistrattato e sentito come un peso tra i patri confini.

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